Di Marco

«Oh! Come! Voi qui, mio caro? Voi in questo luogo malfamato! Voi, il bevitor di quintessenze! Voi, il mangiator d’ambrosia! Davvero, ne sono sorpreso!».

«Mio caro, vi è noto il mio terrore dei cavalli e delle carrozze. Poc’anzi, mentre attraversavo il boulevard in gran fretta, e saltellavo nella mota, in mezzo a questo mobile caos, dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti ad un tempo, la mia aureola, ad un movimento brusco che ho fatto, m’è scivolata giù dalla testa nel fango del selciato. Non ho avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno sgradevole il perdere la mia insegna che non il farmi fracassare le ossa. E poi, ho pensato, non tutto il male vien per nuocere. Ora posso andare a zonzo in incognito, commettere delle bassezze e abbandonarmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi qui, assolutamente simile a voi, come vedete!».

«Dovreste almeno far affiggere che avete smarrita codesta aureola, o farla reclamare dal commissario».

«No davvero! Qui sto bene. Voi solo mi avete ravvisato. D’altronde, la grandezza m’annoia. E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente. Render felice qualcuno, che piacere! E soprattutto render felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z!… Eh? Che cosa buffa, sarà!…».

Charles Baudelaire, La perdita dell’aureola, Lo Spleen di Parigi (1869)

Un orribile senso di desolazione accompagna il poemetto in prosa di Baudelaire ma, come spesso mi ripeto allo specchio, occorre guardare in faccia alla cruda realtà senza infingimenti per poter di conseguenza agire con la risolutezza richiesta. Il Kali-Yuga non risparmia neppure una delle supreme creazioni concepite dall’ingegnosità umana, l’Arte; indegnamente viene sfregiata in una società, quella del terzo millennio, a cui stiamo assistendo inermi, senza più idee, priva di un’autentica sensibilità nei riguardi della Bellezza poiché in fondo non importa a nessuno la libera inventiva che nel Genio incarnato dall’artista, un tempo ahimé, disvelava il senso ultimo della nostra esistenza, in una sorta di evocazione magico-sacrale. La perdita dell’aureola da parte del poeta nel fango del non-pensiero contemporaneo assurge a simbolo eloquente di codesto squallore senza fine.

Mi perdonerete se faccio una piccola notazione su Baudelaire. La lettura dei suoi Fiori del Male per me giovane adolescente liceale fu una folgorazione sulla via di Damasco; le sue liriche elargiscono visioni oniriche pervase dall’oscuro mistero della Notte, che suscitano nel cuore di ognuno di noi la ripugnanza verso la vertigine di bestialità cui l’uomo è capace toccare. Non bisogna però cadere nell’errore grossolano indotto dalla chiave di lettura distorta di un qualunque solone accademico, figura assai consueta nel panorama universitario nostrano, il quale interpreta la descrizione delle bassezze umane senza ipocrite censure un atteggiamento assimilabile al fascino sibillino per la corruzione morale; quando difatti è proprio il contrario, vale a dire che Baudelaire, con lucido distacco, ci mostra le perversioni più abbiette senza abbandonarsi a compiacimenti.

Detto ciò, ritorniamo al concetto sacrale dell’Arte prima dell’avvento del Kali-Yuga. Evola in Rivolta contro il mondo moderno (1934) riporta che “nelle arti figurative, già tracce preistoriche mostrano l’inseparabilità dell’elemento naturalistico da una intenzione magico-simbolica, e una dimensione analoga fu presente anche in successive, più sviluppate civiltà”. Asserisce inoltre ciò: “Al teatro corrisposero le rappresentazioni misteriche e i drammi sacri, in parte anche i ludi dell’attività classica. L’antica poesia ebbe strette relazioni con il vaticinio e la sacra ispirazione; il verso con l’incantamento e in tema di letteratura, più o meno latente, procedente da una intenzione cosciente ovvero da influenze infracoscienti che si innestavano sulla spontaneità creatrice dei singoli o dei gruppi, l’elemento simbolico ed iniziatico informò di sé non di rado non solo il mito, la saga e la fiaba tradizionale, ma anche i racconti epici, la letteratura cavalleresca e perfino quella erotica. Si evince pertanto quanto abbiamo enunciato in apertura in ossequio alla concezione dell’Arte nelle società tradizionali. Essa ebbe una portata inconcepibile dall’uomo odierno poiché le veniva tributata la facoltà di accedere direttamente alla conoscenza trascendente ed immutabile, che viene prima di ogni distinzione contingente; situarsi in quella Unità centro di ogni potenzialità in divenire nel mondo dei “nomi” e delle “forme“. L’Arte assurgeva all’atto creativo stesso della Sostanza Intelligente Universale da cui scaturisce ogni fenomeno visibile nel dominio empirico ed il linguaggio dei simboli proprio per la sua natura pre-razionale illimitata era deputato a reintegrare quel vincolo primigenio con la Realtà Assoluta. Basta richiamare all’attenzione la radice sanscrita AR traducibile come eccellente, nobile, da cui deriva pure il termine ariano, dal medesimo valore semantico.

Il dettaglio del dipinto intitolato “Les Pretendants” (1882), del noto pittore simbolista Gustave Moreau, ve l’ho posto all’attenzione per una motivazione di estrema rilevanza all’uopo della nostra requisitoria. La figura maschile è ritratta secondo i canoni della bellezza plastica tipici della statuaria classica in una posizione ieratica con in pugno nella mano destra la lancia, simbolo di fortezza ed autorità regale, e nella mano sinistra un fiore di loto, contrassegno del risveglio nel proprio cuore della consapevolezza del Sé interiore. Contempla immobile gli spettacoli turbolenti della vita con l’inflessibile calma del guerriero che ha vinto le lusinghe delle passioni e ha riaffermato in sé il Principio virile all’origine di Tutto. L’inspirazione femminea dell’Arte una volta fattasi penetrare e fecondare dalla componente maschile giunge alla perpetua reintegrazione degli opposti nella perfetta Unità divina. L’arcano indicibile è svelato.

Confesso senza esitazione alcuna che il mio spirito nel tentare di descrivervi la concezione che avevano i nostri antenati circa l’Arte ha provato una sensazione di autentica liberazione dai condizionamenti della mediocre quotidianità a cui ormai ci rassegniamo, sviliti. Mi auspico, che anche solo parlarne, possa sortire in voi una catarsi.

Ahimé, però, il contesto in cui siamo piombati è di tutt’altro tenore, come ci ha annunciato Baudelaire. La società antitradizionale riserva ben poche prospettive al ruolo dell’artista, del tutto futile, d’altronde è l’effetto lampante dell’assenza di trascendenza, convertita agli interessi utilitaristi del mercato. Non c’è più chance per il suo vaticinio. Troppo elevato per la stupidità della massa informe livellata da una dose cospicua di imbecillità che non sa vedere oltre alle impellenti bramosie dedite al consumo di “bellezze” (per non dire evacuazioni fecali) dall’immediata infatuazione, diremmo attingendo alla loro volgarità: “a buon mercato“. Ecco la somma impostura! La rivalsa dei poetastri che mercificano loro stessi come le puttane sulla strada della perdizione.

La nobiltà, e così di conseguenza l’Arte, sono state soppiantate dal fetido risentimento nutrito da coloro che da sempre nelle società tradizionali erano confinati ai margini in virtù dell’ignobiltà insita nel loro codice genetico. Pound direbbe che: “Il tempio è sacro perché non è in vendita”.Il danaro ha stabilito l’egemonia di tutto ciò al quale l’occhio non offuscato dalla regressione dovrebbe cogliere con cristallino candore; la sovversione dei lestofanti privi di alcuna propensione per la distinzione, la compostezza interiore, la serenità uranica, prerogativa degli dèi, la sensibilità per il Bello, l’azione eroica disinteressata, la fedeltà alla Patria e alla famiglia. Il loro precipuo intento si è rivelato quello di annientare codeste nobili aspirazioni dell’animo umano per conformarci al mero appagamento dei bassi appetiti.

All’Arte moderna è dunque concessa unicamente la facoltà di esprimere la soggettiva, particolaristica opinione di un qualsiasi sedicente “artista” totalmente asservito al dominio del sensazionalismo delle emozioni umane e non più a qualcosa di più che umano, di sovraindividuale. Si pretende di possedere la propria (parziale) verità di contro alla Verità Ultima. Nessun appiglio ad altre realtà oltre quella visibile, è banale astrazione immaginativa-speculativa, sterile vaniloquio d’estetica (discutibile), funesta conseguenza dell’esacerbato attaccamento alla materia tangibile, muta nel suo silenzio chimerico, la quale ci circonda e non siamo più in grado di rianimare con le segrete possibilità di ordine metafisico a cui l’Arte in passato ci ha abituato.

Sodali camerati concludiamo la nostra succinta disamina con una citazione di Evola tratta sempre da Rivolta: “La concezione del mondo da cui partono e su cui si fondano è tale da influire in senso dissolutore e negativo nell’interiorità umana: è tale da trarre in basso.