Di Sergio

Sono passati dieci anni dall’uscita nei cinema di Inception, settimo film del regista, sceneggiatore e produttore britannico Christopher Nolan. Sì, quello del sogno nel sogno (nel sogno). Pochi cineasti sono riusciti, come Nolan, a fare dei propri film opere complete e profonde ed allo stesso tempo fruibili al grande pubblico. Un successo che fa di lui uno dei registi con maggiori incassi della storia del cinema, con 4,753 miliardi di dollari. Infatti, a lui dobbiamo la rinascita (anche commerciale) del personaggio di Batman, che nella trilogia del cavaliere oscuro, iniziata con Batman Begins nel 2005, fa resuscitare dagli anni ’90 un’icona pop per consegnarla al grande cinema e ad una generazione nuova.

Successi, quindi, che non vanno mai a discapito della qualità intrinseca dei film, nemmeno quando tratta di semplici supereroi. Un risultato non indifferente, se pensiamo ai grandi incassi dell’impero Disney-Marvel, che al contrario, spesso vengono costruiti sulla necessità commerciale con risultati sulla trama a dir poco risibili e che proiettano i supereroi in un semplice (non inferiore) intrattenimento per tutta la famiglia. Non esistono categorie di serie A o di serie B, lungi da noi fare i sapientoni da critica: se il cinema è intrattenimento, ovvero tempo dedicato ad altro rispetto alla norma quotidiana, anche il più semplice, come il più complesso, ha il suo fine. Dipende sempre da ciò che si cerca: se il cinema può essere settima arte, ovvero un’altra dimensione dell’arte, questa non può dipendere dagli incassi, può esserne effetto, non causa. Altrimenti, come tutte le arti che come direbbe Pound vengon fatte per “vendere subito“, si usurano e sterilizzano. Noi cerchiamo altra arte, arte che eleva, che ci strappa dalla morale borghese del museo-intrattenimento, in favore del bello, del vero e del giusto. Che a scanso di equivoci, non sono mai egualitari…

In attesa dell’uscita nelle sale (programmata a settembre) dell’ultima fatica del cineasta inglese, ovvero TeneT, vogliamo ripercorrere con voi un viaggio attraverso quelli che sono (almeno secondo chi scrive) tre pilastri della cinematografia firmata Nolan, tre film che meritano di essere visti almeno una volta anche da chi di cinema digerisce altro (o non lo digerisce affatto). Tre film che come il titolo della prossima uscita, formano un palindromo. In questo caso non di lettere ma di significato: si tratta, in ordine, di Batman – The dark knight(2008), Inception (2010) e Interstellar (2014).

Una trilogia del tempo, dello spazio e dell’uomo. Una trilogia dell’eterno ritorno e del super-uomo, quello Nietzscheano, che durante lo svolgimento della trama si trasforma, per uscirne sempre nuovo e trasmutato. Tre viaggi, anche fisici, in dimensioni simultanee e parallele che coesistono con la nostra: il caos, il sogno, il cosmo. Tre film che sono fantascienza ma non strettamente futuristica: una fantascienza che non è Guerre Stellari, ma più un viaggio in meta-realtà, sovra-mondi, mondi inferiori, che co-esistono in noi, che co-esistono con le tre dimensioni dello spazio e la quarta, il tempo, che fa da leitmotiv e palcoscenico al tutto. La terra è pur sempre la Midgard della tradizione norrena: il nostro mondo, la nostra realtà, è la terra di mezzo.

Iniziamo con Il cavaliere oscuro, la Zeta del nostro percorso. Non è un film di supereroi. O meglio, è una storia tratta dall’universo DC Comics, ma il modo di affrontarlo è fuori dall’ordinario. Nel film matura e si fa consapevole del suo ruolo Bruce Wayne, interpretato da Christian Bale, lontano dal prototipo di superman e più vicino a quello di un vero e proprio cavaliere, impegnato nella lotta, prima che con gli altri, con se stesso. Le sue paure e le sue titubanze riemergono dal pozzo per concretizzarsi nella sua nemesi: il Joker. Che per inciso, quello di Ledger è l’unico Joker degno di nota, nonostante l’interpretazione sensazionale dell’ultimo Joachim Phoenix, che però ha la pecca di mettere in scena solo un sociopatico, lontano dall’archetipo del caos di The dark knight. E quindi anche molto più digeribile dai media mainstream. Perché superuomo si può essere anche nel male: se il Joker del 2019 è uno psicopatico da rivalsa sociale, il Joker del 2008 è il male. Non il male manicheo della morale giudaico-cristiana, ma un male originario, caotico, arcaico e (se vogliamo) necessario. Un male che non conosce interesse (sociale, economico, ludico) se non il perseguimento, con tutte le forze, della volontà distruttrice.

Il Joker che affronta Bruce Wayne non compra, non tratta, non scende a compromessi, sa qual è il suo compito nel mondo e lo persegue fino alla fine, senza compromessi. È memorabile la scena in cui il Joker incendia una montagna di dollari perché non gli danno gusto, perché non sono che un mezzo per il suo male. Altrettanto memorabile la definizione di Alfred, il fedelissimo maggiordomo di Wayne: “Certi uomini non cercano qualcosa di logico, come i soldi. Non si possono né comprare né dominare, non ci si ragiona né ci si tratta. Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo”. La battaglia che si prefigura in questo film è proprio tra due assoluti (la forza irrefrenabile che incontra l’oggetto inamovibile) e si gioca sulla loro complementarietà: ovvero il proverbiale “male necessario al bene” e viceversa. In quella che è una vera e propria fine del mondo, un punto di arrivo della società di Gotham in cui cadono gli idoli della legalità e sopraggiunge il caos personificato, ciò che il Cavaliere deve fare è rinnegare la facile via, quella che lo porta quasi a rinunciare alla lotta, ed indossare di nuovo il nero per affrontare le tenebre. Da questa opposizione di opposti, da questa lotta necessaria, sorge il Cavaliere: non l’eroe legalitario, quello è Harvey Dent (che infatti finisce come le “due facce” della legalità) ma l’eroe della giustizia, ovvero colui che percorre la via del giusto (che non è quella del facile) anche quando questa si addentra nel bosco. Attraverso Nolan, in Batman si rievoca la figura archetipica ed apocalittica del Cavaliere di Dürer, nel suo perenne incedere verso il bosco, che si lascia alle spalle il diavolo e ha sempre vicino la morte. Alla fine del mondo, sorgono i cavalieri…

Punto Zero, Inception. Il centro che si trova alla fine del labirinto. Quello che nel caso del film si trova al centro del nostro cervello, nelle profondità abissali del nostro Io e della nostra personalità. Cosa spinge le idee? Qualcuno di voi sa con certezza quando e come un’idea ha preso il sopravvento e ha diretto le sue azioni? Forse sì, per le idee superficiali come cosa mangiare a pranzo, ma voi sapreste intercettare quel momento in cui avete capito che la vostra vita doveva essere diretta in un modo invece che in un altro? Sicuramente no, ed è naturale (e giusto). Un’idea non si impossessa di noi come uno spiritello ma è nascosta dentro di noi, è un seme che germoglia e cresce nel tempo, è una melodia che giunge dalle corde irrazionali che muovono i sentimenti, che ci arriva da lontano per maturare e manifestarsi progressivamente. È una catena di momenti, non uno solo. Così è per le idee portanti della vita: un pensiero politico, la scelta di un lavoro, l’amore per qualcuno, sopraggiungono e non sapremmo comunque dire il perché. Si possono ricercare i perché, ma è compito di una vita intera, e nel caso del film il compito degli estrattori, coloro che si addentrano nelle menti sognanti dei bersagli per estrarne informazioni o innestare idee. Il film è un viaggio onirico verso l’interno, verso lo zero, una discesa che per dirla come Cobb (il personaggio interpretato da Di Caprio) è l’unica via d’uscita per risalire. Come inizia? Quando il signor Saito, miliardario giapponese, ingaggia per una missione Cobb promettendogli non denaro, ma di farlo tornare a casa. Nel film, Cobb è fuggito dagli Stati Uniti perché ingiustamente accusato dell’omicidio della moglie, che al contrario, si è suicidata inscenando una violenza domestica. Saito vuole un innesto, ovvero impiantare un’idea nel cervello del suo rivale in affari Robert Fischer, che alla morte del padre erediterà una multinazionale con il monopolio quasi assoluto sull’energia. L’idea di scomporre l’impero finanziario, frammentarlo, far respirare il settore. Ma non è solo questo: Cobb sa bene che si tratterà di un viaggio all’interno di una mente, dentro le sue fobie e paure, i suoi rimpianti e nel caso di Fischer, nel complicato rapporto con il padre. Allora Saito, a sugello della sua promessa, chiede a Cobb: “È disposto a fare un atto di fede? O preferisce diventare un vecchio pieno di rimpianti, che aspetta la morte da solo?”. Questo è un altro leimotiv della cinematografia targata Nolan: il ritorno della giovinezza, l’accettazione senza compromessi di una pura e semplice scommessa. L’atto di fede che muove le idee, le idee che muovono il mondo.

Scandito dai ritmi di Je ne regrette rien di Edith Piaf,il viaggio all’interno dei sogni si rivela più duro del previsto, per trasformarsi in un vero e proprio incubo in cui chi muore non tornerà alla realtà, come ci si sveglia dal sogno, ma cadrà in un limbo onirico in cui la relatività farà scorrere i secondi come anni. Il film si gioca sul dualismo tra sogno e realtà: i personaggi dispongono di piccoli oggetti, detti totem, unici e peculiari per il solo possessore, che aiutano a capire quando ci trova nella realtà o quando invece si è nel sogno di altri. I rischi dell’onnipotenza creativa del sogno fanno vacillare il rapporto con la realtà, che al contrario del mondo onirico è relegata alle leggi della fisica newtoniana. “I sogni sembrano reali finché ci siamo dentro, non ti pare? Solo quando ci svegliamo ci rendiamo conto che c’era qualcosa di strano…”. Viaggiare nei sogni può portare benefici, ma guai a perdersi, guai a perdere la distinzione tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Ma il film va oltre questo che potrebbe essere un facile assioma, si spinge fino a chiedersi se in fondo ci sia reale distinzione tra sogno e realtà. “Questa nottediceva il filosofo cinese Chuang Tzunel terzo secolo avanti cristo –  ho sognato che ero una farfalla: ora io non so se ero allora un uomo che sognava d’essere farfalla, o se io sono ora una farfalla, che sogna di essere uomo”. Qual è la verità? A nessuno è dato saperlo con certezza. L’unica cosa certa che sappiamo è di trovarci in un labirinto e l’unico modo per uscirne è al centro, dove alberga la nemesi di ognuno, il proprio Minotauro, il proprio super-io borghese che vuole incatenarci al fato dei giorni che passano inesorabilmente.

Una vita intera da miserabili vale un solo giorno vissuto davvero? È questo che succede nel film di Nolan, dove il viaggio di catarsi di Fischer per scoprire se stesso nel suo sogno diventa la catarsi di tutto il manipolo di estrattori, la catarsi stessa di Cobb che al termine della discesa incontra tra i mostri dell’inconscio la sua peggiore ombra, ovvero la moglie Mal (interpretata dalla bellissima Marion Cotillard) che da tempo gli impedisce di avere sonni tranquilli. Perché Cobb sapeva che un innesto era possibile? Perché aveva funzionato con sua moglie: vissuti ed invecchiati per anni in un sogno lunghissimo, spinto dal suo amore per Mal, Cobb decise che quella realtà sterile non poteva più essere il loro presente, che dovevano tornare alla realtà. Una piccola idea, che seppur riuscì a far tornare la coppia dal sogno condiviso, in cui avevano vissuto per cinquant’anni (onirici), non riuscì ad impedire la pazzia ossessiva di Mal: ormai convinta che nemmeno la realtà, nemmeno i figli, nemmeno il presente siano reali e che debbano ancora tornare veramente, decide di morire per svegliarsi ancora. Per tentare di convincere anche il marito lo incastra legalmente, ma Cobb non la segue e il suo viaggio finisce con un volo giù da un palazzo vero… Il rimpianto spinge Cobb ad affrontare la moglie, ormai semplice proiezione della sua mente: ma a porre fine all’ombra lunga del suo spettro c’è la compagna di viaggio Ariadne (Arianna in italiano), una giovane studentessa che decide di seguirlo all’interno del sogno per aiutarlo nella sua difficile lotta. Una palese ripresa del mito di Teseo nel labirinto e del filo di Arianna che riporta indietro l’eroe. Infatti, sarà proprio Arianna ad eliminare Mal e a permettere a Cobb di risalire. Ma non prima di quella che è la scena più toccante del film. Infatti, il signor Saito viene gravemente ferito e muore nel sogno e finisce nel limbo. Cobb, libero dall’ombra della defunta moglie, decide di scendere ancora per ri-trovare Saito, ancora una volta, e riportarlo indietro con lui. La relatività ha giocato il suo scherzo, Saito è un vecchio decrepito eroso dai rimpianti che ha trasformato il lunghissimo sogno in realtà. Ha dimenticato quale sia la verità, ma ricorda ancora benissimo la sua promessa e il primo incontro con Cobb: “Sono tornato a prenderla… e per ricordarle una cosa importante. Una cosa che un tempo sapeva, che questo mondo non è reale”.

Saito inizia a ricordare: “Per convincermi a onorare il nostro accordo, Cobb…”.

A fare un atto di fede, sì. Torni con me, così potremo essere giovani insieme di nuovo. Torni indietro con me. Torni indietro”.

E così sono di nuovo insieme sull’aereo in atterraggio a Los Angeles, quello su cui si erano collegati al sogno di Fischer, gli anni sono state poche ore, ma decisive per intere vite di ognuno. Fischer si risveglia con la convinzione che il padre, seppur duro e spietato, volesse un figlio indipendente dall’eredità di quello che era stato il suo successo. Saito onora immediatamente la promessa, e grazie ai suoi agganci permette il passaggio all’aeroporto di Cobb, che finalmente torna dai figli. Qui Nolan ci lascia con uno dei finali più struggenti della storia del cinema: infatti, poco prima di rivedere i bambini, Cobb prende il suo totem, una piccola trottolina che nei sogni gira all’infinito, la lancia sul tavolino ma si distrae con i figli poco prima di vedere se questa smetterà di girare. L’inquadratura indugia sul giro della trottola e chiude senza che questa cada definitivamente, lasciando così un dubbio senza risposta. Ma questo è il senso di un film spettacolare, adrenalinico, magnificato dalla colonna sonora di Hans Zimmer (che ritroveremo con Interstellar) e da interpretazioni di grandissimi attori: che in fondo siamo noi a decidere quale sia la realtà, se questa in cui viviamo o quella a cui abbiamo l’ambizione di tornare. La storia e il mondo iniziano con una promessa ed un atto di fede. Per mantenerla è necessario iniziare a camminare, sempre giovani e senza rimpianti, anche quando ci diranno che è assurdo… la trottola deve continuare a girare.

Arriviamo ad Interstellar, la punta dell’iceberg. L’Alfa da cui riinizia la storia. Se Inception rivela il volto sommerso dell’uomo, l’aspetto invisibile della personalità, il film del 2014 mette in scena il superamento stesso dell’io e rappresenta l’elevazione umana oltre la materia, oltre lo spazio e il tempo, lo sforzo ardito e la spersonalizzazione in nome di un noi più grande ed assoluto. La Terra muore, l’umanità declina in una lenta e inesorabile decadenza, annaspa e arranca tra la desertificazione dell’ambiente e le risorse in via di esaurimento. Stranamente profetico, la “piaga” è un flagello naturale che si nutre di azoto e che consuma l’ossigeno dell’atmosfera, causando immani tempeste di sabbia che rendono la vita quotidiana impossibile. Il tempo stavolta non c’è, è scaduto: la generazione dei figli di Cooper, il protagonista interpretato da Matthew McConaughey, sarà l’ultima a sopravvivere sul pianeta. La stessa società è fortemente fatalista, rassegnata, basata sulla sopravvivenza e negazionista nei riguardi di molte conquiste scientifiche, concentrata com’è sulla più pragmatica e necessaria produzione di cibo. Cooper è un ultimo ribelle, si potrebbe dire, un uomo che non ha mai accettato l’abiura dell’uomo alla sua sfida alle stelle: lavora nei campi e cura una fattoria, ma il suo cuore nutre l’ambizione delle vette con cui educa sua figlia Murphy alla curiosità per l’ignoto. Nomen omen: perché Cooper e la moglie, ormai defunta, le danno alla figlia il nome della celebre “Legge di Murphy”, il postulato pseudo-scientifico secondo il quale ciò che è inaspettato può sempre verificarsi.

Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango”.

Parole che rimbombano, anche oggi, e ci ricordano che la vita non è un valore assoluto, e che rischia di trasformarsi in mera sopravvivenza se rinunciamo a dare un senso e una direzione al mondo. Scandita dai ritmi del prodigioso Hans Zimmer, l’epopea spaziale che porterà Cooper sulle soglie dello spazio-tempo è un inno all’insurrezione del uomo contro “il morire della luce”, contro il tempo e contro l’illusione dannatamente persistente (come disse Albert Einstein) della linearità del tempo. Il tempo non è lineare, al contrario, la Tradizione indoeuropea ci insegna la circolarità del tempo, il suo eterno ritorno su sé stesso. Le stagioni, i fiumi, le maree e le ere glaciali: tutto torna, si disfa e si rifà. Anche l’uomo, anche Cooper che, arruolato per un’ultima missione spaziale alla ricerca di nuovi mondi vivibili, nel film chiamata “Progetto Lazarus” (dal vangelo di Giovanni, Lazzaro è colui che torna dalla morte per mano di Gesù di Nazareth), incarnerà il prototipo del coraggio che in nome di un bene superiore rinuncia alla sua vita. Cooper è conscio che la durata del viaggio e gli sbalzi temporali a cui sarà sottoposto dalla legge della relatività, con l’equipaggio della Endurance, lo strapperanno dal suo presente, dai suoi figli, praticamente per sempre. Ma è nell’esatto momento che sceglie di partire, lasciandosi alle spalle la famiglia, che il destino si compie trasformando già il suo viaggio in un ritorno. È il mito senza tempo di Ulisse, di Cincinnato se vogliamo, che strappato alla sua casa dalle incombenze della guerra che affligge Roma, si occuperà del suo dovere di uomo per poi tornare nuovamente a casa, alla sua Patria. Infatti, la Endurance passa attraverso un wormhole, un ponte di Einstein-Rosen, apparso per caso nell’orbita di Saturno. Nessun caso ovviamente, il wormhole al contrario del più noto buco nero, non sorge spontaneamente dal collasso di una stella ma deve essere necessariamente creato. Ciò fa dedurre agli scienziati della NASA che sia frutto di una civiltà superiore, “aliena”, in grado di muoversi nel tempo come una dimensione percorribile ed in grado di unire due dimensioni spaziali altrimenti distanti milioni di anni luce. Aldilà, tre pianeti vivibili aspettano di essere analizzati dalla missione, a cui spetta il gravoso compito di scegliere la nuova casa dell’umanità.

Mentre la Endurance sfida i gorghi della relatività, sulla Terra Murphy, ormai adulta, e il vecchio professor Brand sono alle prese con una sfida altrettanto titanica: risolvere le equazioni iper-complesse della Teoria del tutto, una sorta di calcolo che sarebbe in grado di far sollevare in un processo di anti-gravità le enormi navi spaziali destinate a portare l’umanità via dal pianeta. Calcolo che però ristagna e spinge Brand ad avviare in segreto un piano B, ovvero la più brutale e semplice ricolonizzazione di un pianeta a partire da embrioni congelati sulla Endurance, senza nessuna speranza per chi vive sulla Terra. Il suo è un atto di sfiducia verso ciò che ritiene ormai spacciato. Lui stesso morirà, confidando alla sua allieva Murphy che l’equazione non ha soluzione. Nomen omen: accade l’inaspettato. Infatti, è proprio il rapporto tra Cooper e la figlia a salvare il mondo, un amore che si getta come un ponte tra le dimensioni spazio-temporali e si ripropone come un ritorno a casa. Mentre Murphy torna alla casa natale, dove anni prima non aveva accettato di salutare il padre in partenza, Cooper spinto dal desiderio di ricongiungersi ai figli si spinge oltre l’enorme buco nero che si trova al centro del sistema dei tre pianeti. Finisce nel vortice e va lì dove nessuno è mai stato, oltre la singolarità, ovvero il punto dove spazio e tempo formano un’unica dimensione. È qui che scopre che il buco nero in realtà non è altro che un costrutto, un tesseract dimensionale che gli mostra proprio la stanza dove Muprhy bambina assisteva a strane anomalie gravitazionali, ingenuamente identificate con un fantasma. Inizialmente Cooper, che rivede le strazianti scene della sua partenza come in un film della sua vita, capisce che può interagire tramite la gravità e tenta di comunicare a sé stesso di restare (S.T.A.Y.). Ma solo quando capisce che non è lì per cambiare il passato che trasmette con l’analogico codice morse i dati ottenuti dal centro del buco nero, dati che permetteranno a Murphy la risoluzione del nodo gordiano della gravità nell’equazione del tutto. Eureka! L’umanità ha di nuovo il suo tempo.

Conclusa la trasmissione dei dati, il tesseratto collassa e Cooper viaggia a ritroso attraverso il tunnel spaziale; ormai allo stremo delle forze e condannato a morte certa, riappare vicino a Saturno, mentre delle luci in lontananza stanno per raggiungerlo. Secondo il tempo terrestre sono trascorsi 76 anni dalla sua partenza. Si risveglia in un letto d’ospedale, sorvegliato da un medico e un’infermiera: è stato recuperato nel cosmo, apparentemente per puro caso, si trova in un’immensa stazione spaziale terrestre in orbita intorno a Saturno e non è invecchiato fisicamente anche se, nella scala di tempo terrestre, avrebbe l’età di 124 anni. L’astronave, costruita anni prima grazie alle equazioni risolte da Murphy, che lui stesso le aveva permesso di completare, è stata chiamata “Stazione Spaziale Cooper”, in onore della geniale scienziata.

Murphy, ormai vecchia e morente, circondata da figli e nipoti, si ricongiunge al padre, identico a quando era partito. Gli rivela la destinazione del viaggio: un pianeta su cui la vita sarà di nuovo possibile per tutti. Il film si conclude con un Cooper ormai conscio di essere aldilà del tempo e dello spazio, che trafuga una navetta per essere il primo araldo dell’intera razza umana a giungere da Amelia Brand, l’astronauta rimasta illesa sul pianeta sconosciuto, in attesa…

“La terza legge di Newton. L’unico modo che gli umani hanno trovato per andare avanti è lasciarsi qualcosa alle spalle”.

Film incalzanti, ritmi serrati, musiche evocative e personaggi che trascendono ogni aspetto basico della vita per tornare a noi come modelli archetipici di comportamento. Nei film di Nolan sono i temi del Tempo e dell’Eterno Ritorno a farla da padrone, oltre ad una padronanza magistrale di sceneggiature che non hanno nulla da invidiare ai grandi classici come 2001: Odissea nello spazio. Può esistere una filosofia della fantascienza? Una poesia del futuro? Quando smette di essere semplice fantascienza, intrattenimento, per trasformarsi in filosofia applicata alla settima arte? Le risposte possiamo trovarle da soli, ovviamente, guardando come i suoi film riescano a toccare corde invisibili, sensibili a temi che non sono alieni ma fanno parte del nostro patrimonio genetico.

La civiltà aliena di Interstellar non sono gli omini verdi, sono gli uomini avanti millenni che tornano indietro per salvarsi. A scanso della forma narrativa, questo ci insegna che la salvezza è in noi stessi, quando capiamo che passato, presente e futuro non esistono; o meglio, coesistono nell’istante in cui prendiamo una decisione. Nessuna delega, la responsabilità è nostra, sempre. Non siamo punti isolati di una retta, isole a sé stanti, come vorrebbero i cultori della linearità del tempo. Siamo punti di un cerchio, le nostre azioni non muoiono con noi ma hanno sempre effetti che torneranno su chi ci seguirà. Doniamo perché qualcuno continui a donare.

La fantascienza “è sempre l’arte del possibile” diceva Ray Bradbury, “mai dell’impossibile”. Nessuno può dire se arriveremo mai alle stelle con astronavi e wormhole dimensionali, forse potrebbero non servirci mai. Nessuno ancora è in grado di percorrere i propri sogni come un sentiero di montagna. Nessuno di noi va in giro mascherato da Batman… Ma sicuramente possiamo trarre dalla fantasia di queste avventure l’esempio per orientare la nostra vita in una direzione superiore, sicuri che qualsiasi percorso verso quella vetta ci riporterà sempre a casa. È lo stesso motivo per cui i poemi omerici ci parlano ancora, nonostante i secoli… Perché sì, magari saranno cambiate le sfide dell’uomo, ma non lo stile con cui affrontarle. E così sarà per sempre.