Di Michele

Cormac McCarthy è uno dei pochi autori americani contemporanei degno di essere letto e Meridiano di sangue è il suo capolavoro. Come se non bastasse, Meridiano di sangue è il romanzo di frontiera definitivo, il più grande libro western che vi possa capitare fra le mani. Anzi è l’ultimo romanzo western, perché uccide il genere. Dopo Meridiano di sangue la frontiera americana non può essere più la stessa. Cala il sipario su una delle ultime epopee della modernità, quella dell’estremo occidente, quella del Far West, tant’è che il titolo completo del romanzo sarebbe Meridiano di sangue o rosso di sera nel West. McCarthy, col suo stile unico in cui ogni frase è una sentenza, una cannonata di un obice, mette in scena una discesa all’inferno, tra pianure brulle e altipiani aridi, dove il sole e il sangue colorano di rosso l’orizzonte. Ci ritroviamo tra banditi e fuorilegge, cacciatori di scalpi che vagano tra la frontiera del Messico e del Texas a caccia di pellirosse. Chiunque si sarà fatto una concezione degli indiani idealizzata, quasi fossero gli ingenui poeti della grande anima del mondo, rimarrà deluso. I pellirosse sono diavoli, bestie selvagge. Nel crepuscolo della frontiera nessuno conosce la pietà. Ma Meridiano di sangue è soprattutto un romanzo di guerra, anzi un’iniziazione alla guerra, che è come dire all’essere autenticamente uomini.

Stretti intorno ad un fuoco acceso nella notte, è il Giudice Holden che con voce stentorea insegna ai propri compagni d’arme il significato profondo della guerra: “la guerra perdura nel tempo. Tanto varrebbe chiedere agli uomini cosa pensano della pietra. La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente”1. Il Giudice è personaggio carismatico quanto enigmatico. Dalla stazza gigantesca e il corpo completamente glabro. Si muove nella storia del romanzo con istinto sicuro, guidando gli uomini a proprio piacere. Lo troviamo all’inizio del racconto ad aizzare la folla contro un predicatore, reo a suo dire di essersi congiunto carnalmente con una capra. È sempre lui a salvare il gruppo di mercenari allo sbando in tutt’altra situazione. Tra la folla che assistette al linciaggio del predicatore provocato dal Giudice, tra quella banda di tagliagole salvata all’ultimo da morte certa, c’è anche il Ragazzo, ma su quest’ultimo torneremo poi. Il Giudice, fedele al proprio nome, agisce quasi come una forza cieca, incomprensibile, che emette altrettanto incomprensibili sentenze di vita o di morte. Parrebbe l’incarnazione della forza stessa del destino che decide e giudica intorno alle sorti degli uomini, come si trattasse di un gioco.

Ma in fondo, nel suo nucleo più autentico, è la vita stessa un gioco: “gli uomini sono nati per giocare. Tutti i bambini sanno che il gioco è più nobile del lavoro. Sanno anche che il valore o merito di un gioco non sta nel gioco stesso, ma piuttosto nel valore di ciò che è messo in gioco”2. La guerra non è nient’altro che il gioco per eccellenza, perché nella guerra la posta in gioco è la vita stessa: “supponiamo che due uomini giochino a carte non avendo niente da puntare se non la vita. Chi non ha mai sentito una storia del genere? Una carta viene girata. Per il giocatore l’intero universo si riversa fragorosamente in quell’istante, che gli dirà se gli tocca di morire per mano di quell’uomo o se toccherà a quell’uomo morire per mano sua. Quale ratifica del valore di un uomo potrebbe essere più sicura di questa?”3. Il gioco diviene l’apparire del destino, il suo rendersi manifesto tra le volontà contrapposte, tra le spade che s’incrociano. La sua sanzione è inappellabile, decidendo di vita e morte, decide del valore proprio di un uomo: “tale è la natura della guerra, in cui la posta in gioco è a un tempo il gioco stesso e l’autorità e la giustificazione. Vista in questi termini, la guerra è la forma più attendibile di divinazione. È la verifica della propria volontà e dalla volontà di un altro all’interno di quella più ampia volontà che è costretta a compiere una selezione perché li lega insieme. La guerra è il gioco per eccellenza perché la guerra è in ultima analisi un’effrazione dell’unità dell’esistenza. La guerra è dio”4. Nel crescendo delle sue parole il Giudice sembra trasfigurarsi nell’oscuro di Efeso, in Eraclito, sentenziando con lui che polemòs, cioè la guerra, è padre di tutte le cose, quindi un dio. La vita è conflitto, l’unità si spezza per donarsi al vittorioso.

Questo il senso profondo della guerra. Ma Meridiano di sangue è anche un romanzo di formazione, di formazione alla guerra, una vera e propria iniziazione ad essa. Il Ragazzo passa per alcuni riti di passaggio. Il primo è l’incontro con la violenza. La violenza nuda e terribile, senza ordine, senza giustizia, senza marzialità, come possono essere le risse in squallide locande, tra rabbia, pugni, bottigliate e coltelli: “li guarda giacere sanguinanti, ha l’impressione di aver vendicato l’umanità intera”5. Poi è l’illusione che basti una divisa per fare di un uomo un soldato, un guerriero. Il Ragazzo si arruola in un reggimento di cavalleggeri. Li comanda il capitano White. Un vanesio senza un briciolo di coraggio. Saranno gli indiani Comache a farne strage. Il Ragazzo però sopravvive al massacro. Verranno gli anni della banda Glanton, come al centro del cratere di un vulcano, in mezzo al fuoco, al sangue, dove conta solo vivere e lottare. Fino a che anche questo sogno si spezza. Fino all’epilogo, ad una ultima danza, nel crepuscolo mentre le stelle rilucono, e non importa se sia un alba od un tramonto, se si è vinto o se si è perso.È bastato combattere.

1 C. McCarthy, Meridiano di sangue, Torino, Einaudi, 2014, p. 222.

2 Ivi, p. 223.

3 Ibid.

4 Ibid.

5 Ivi, p. 6.