Di Sergio

Hit the road JackCantavano così le coriste nella celeberrima canzone di Ray Charles, uscita nel settembre del 1961, divenuta icona di quei primissimi anni sessanta. Parti Jack, e non tornare mai più… sembra dire al protagonista di questa escursione alla scoperta dell’ultimo grande poeta e scrittore americano, l’ultimo dopo Pound, l’ultimo arrivato che però precede l’autore dei cantos nell’aldilà. Sulla scia dei grandi poeti americani, il nostro Jack è un cantore della bellezza nuda, semplice ed incontaminata della natura. Non una natura spicciola e per benino degli spot pubblicitari per la raccolta differenziata ma una natura vera, semplice e brutale. Un uomo fuori dalle righe e dagli schemi del politicamente corretto: lui che riusciva a far incazzare i compagni italiani mentre era completamente ubriaco e parlava ai suoi seguaci con le parole del Führer, lui che di esperienze di vita vissuta ne aveva da vendere. Ma non vogliamo farne un’iconetta pop da rispolverare quando ci sente troppo puritani, a quello già ci hanno pensato la sinistra, che negli anni sessanta ne fece un maestro, solo per rinnegarlo di lì a qualche anno, quando i borghesi figli di papà ri-entrarono in banca, nelle aziende di famiglia, nei grandi giornali e nelle università per diventare quei vecchi e petulanti professori che tanto odiamo, o peggio, gli incalliti e moralisti Ned Flanders che oggi puntano il ditino contro chi non rispetta la distanza sociale. Jack è di più di questo, sicuramente a sua insaputa, quello che ci lascia il padre della Beat Generation è una ricerca disordinata ma sincera (che poi quale “ricerca” è ordinata?) di un senso perduto, o forse, mai avuto. L’ultimo tentativo di trovare una via americana all’Europa, una via a stelle e strisce verso il mito, la storia e il divino.

Lo so, ora state storcendo il naso e pensate che dagli americani non si cava un ragno da un buco, figurarsi un mito europeo o un’immagine divina. Tranquilli, siete già sulla stessa lunghezza d’onda del nostro nume di oggi, Jack Kerouac, un uomo che come Pound nasce negli Stati Uniti ma non si sente americano, o meglio, non sente sua quella borghesia del denaro, mercantile ed utilitaristica, consumista ed ipocrita che costituiva e costituisce ancora la società americana. Come Ezra Pound, sente propria l’America genuina e contadina che vive l’entroterra, l’America pioneristica in nativo rapporto con la natura: un’America religiosa e profondamente innervata di sangue europeo (la famiglia di Jack era franco-canadese, il nonno era Bretone). Non dovete pensare nemmeno che la Beat Generation siano i Beatles o peggio quegli hippie bonaccioni più fumati di uno scarico industriale che negli anni sessanta invasero le strade di mezzo mondo predicando pace e amore universale. Se i Beatles almeno ci hanno regalato, insieme a centinaia di canzonette, più di un capolavoro della storia della musica (va detto), il movimento hippie è esploso come una bolla di sapone per divenire il primo ribellismo no-global comodo ai potenti e soprattutto agli industriali che trovarono nelle sottoculture un nuovo sbocco di mercato. Il Beat non è nemmeno la Brit invasion che seguì i Beatles, gli Who, gli Yes e i Rolling Stones, ovvero l’invasione musicale del pop-rock britannico che se da una parte ci ha regalato emozioni ci ha anche lasciato un insopportabile e stantia cultura casual, fatta ormai di ostentazione di marchi costosi ma “alternativi”.

Insomma, cos’è il Beat? Tanto per cominciare, il termine beat lo ha inventato proprio lui, ma lungi dal dargli quel significato che successivamente, come abbiamo visto, ha avuto. Per il nostro Jack, Beat era l’equivalente di “beato”: “Fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, Massachussets, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola Beat significava beato”. Un beat quindi è un soggetto estremamente religioso: religioso nella visione pagana, in cui religione e natura sono facce della stessa medaglia e non quel religioso “quacchero” ed integralista di molti americani. Già questo indizio ci dimostra la sua lontananza da qualsiasi stereotipo di comunismo ateo ed anti-patriottico. Lo stesso William Burroughs, di certo non un pericoloso reazionario, disse di Kerouac: “È sempre stato violentemente contrario a qualsiasi genere di ideologia di sinistra”. E lo stesso Kerouac fu il primo a rompere con lui e con Allen Ginsberg, quando i due intellettuali e i loro discepoli si fecero troppo politicizzati, arrivando ad accusarli di essere caduti nella “trappola comunista”. Ed è anche un dato di fatto che le sue opere, almeno qui in Italia, furono accolte con molta attenzione da destra e, al contrario, con diffidenza dalla sinistra. Ai primi piacque per le suggestioni jüngeriane ed evoliane che offriva, tanto da farne un riferimento esistenziale e letterario per la rivolta contro il sistema. Concetto sottolineato anche da Gabriele Fergola in un libro del 1970, Beats, in cui scriveva: “In Kerouac si verifica il tentativo di attuare quello che un antico detto estremo-orientale, ripreso da Evola, denominava ‘Cavalcare la tigre’, nel senso di bruciare il proprio io attraverso la sfrenata esperienza di ogni aspetto negativo del mondo”. Come poteva non piacere On the Road, un romanzo che nell’immaginario collettivo rappresenta ancora oggi più uno stile di vita e una visione del mondo più che un semplice romanzo? Il desiderio di fuoriuscire dagli schemi piccolo-borghesi, il valore dell’amicizia, la ricerca dell’autenticità e il senso profondo di una comune appartenenza che vivono tra le pieghe del libro, come potevano non scaldare i cuori dei ragazzi di quegli anni in cui, per dirla con De Benoist, “si ascoltavano tanto Bob Dylan e Leonard Cohen quanto le canzoni dei parà”? Tutto questo prima che le ideologie, nel tentativo di guidare quell’ansia di cambiamento che si manifesterà nel ’68 globale, finissero per travolgere quella generazione e trasformarla in qualcosa di radicalmente diverso.