Di Sergio

È sempre strano commentare una serie televisiva, soprattutto perché è “solo” una serie: sceneggiatura, attori, location, nulla di reale ma tutto inventato. Viene da chiedersi: perché perderci del tempo? Lungi dal volerci soffermare su discussioni da nerd, non parleremo di inquadrature e prove d’attore, partiamo alla scoperta della terza stagione dell’acclamata serie HBO Westworld. Perché merita la nostra attenzione? Perché oltre la fantascienza, oltre cioè la science-fiction, si cela un mondo di riferimenti, cultura e valori che ci appartengono in quanto uomini sulla barricata. Come tutte le distopie, ovvero tutti i mondi d’immaginazione creati per riflettere al negativo, o quanto meno per mostrarle nella loro estrema brutalità, le tante realtà in cui ci imbattiamo ogni giorno, anche Westworld si dimostra all’altezza della grande cinematografia di genere che da Blade runner a Minority Report ci hanno mostrato mondi futuri stranamente simili (anche troppo) al nostro. Portare all’estremo idee, problemi sociali, ma soprattutto certezze ed incertezze religiose, etiche e morali. Insomma, quando un’idea, un valore, una certezza smette di essere “giusta” in nome della tecnologia, del potere, del controllo e del denaro? Quali sono i limiti da non superare? Infine, quando un uomo smette di essere tale e si trasforma in bestia e quando, di riflesso, una macchina (bestia) diventa “più umano dell’umano“? La distruzione dei “vecchi” valori da parte del progresso tecnologico e scientifico è una tematica ricorrente sia nella letteratura che nel cinema di genere, e ci è utile (più che mai oggi) per riflettere accuratamente sulla realtà che ci sta intorno. Come per ogni sana astrazione, non serve un mondo dove rifugiarsi ma uno specchio nel quale potersi osservare, dal quale prendere ciò che ci è utile per lottare nella quotidianità. Gettare un ponte su altri mondi di fantasia per guardare con occhi nuovi il nostro: che a scanso di equivoci, spesso si dimostra molto più estremizzato di quanto non si creda. Spesso è la realtà, la nostra, a superare in volata la fantasia.

Westworld, la terza stagione in particolare, si dimostra una lente di ingrandimento sulla nostra epoca e sulle certezze metafisiche del nostro tempo: la massa, il progresso, la libertà, il libero arbitrio, la pace, il senso del tempo e della storia, lo stesso Dio. In questa serie si getta benzina anche su alcuni temi meno filosofici ma di più stringente attualità, che sappiamo bene quanto e come ci toccano non solo come uomini ma anche in quanto movimento politico: il controllo, la sicurezza, la privacy, i big-data, la repressione sistematica delle opposizioni. Già dalla prima tagline d’annuncio della terza stagione si può intuire il tenore fortemente scorretto che accompagna le otto puntate: “free will is not free“. Il libero arbitrio non è libero. Un affermazione che corre sul binario di un duplice significato: se infatti il cosiddetto “libero arbitrio” è qualcosa che il nostro mondo, la nostra società, ha eretto a dogma bisogna constatare che non è veramente libero. Lo sappiamo bene, il pensiero unico ce lo insegna tutti i giorni: il libero arbitrio va bene per come indirizzare i nostri acquisti ma non se iniziamo a pensare fuori dagli schemi. Al contrario il secondo significato, forse molto più importante, è quello che ci insegna la nostra stessa visione del mondo, ovvero: la libertà è un dovere, nessuno può concedere il libero arbitrio come diritto caduto dall’alto, dipende soltanto da noi e dalle nostre azioni. Subire il libero arbitrio come qualcosa di passivo e già concesso dalla natura o dal diritto significa abiurare ad essere liberi, significa rimettersi a qualcun altro, significa essere schiavi di chi ci dovrebbe concedere più libertà. Un paradosso. Ecco il punto su cui si snoda tutta la trama della serie, che per inciso, può essere tranquillamente guardata anche a sé stante, senza le precedenti, perché rappresenta un unicum e se vogliamo una sintesi dei temi affrontati in maniera molto più lenta nelle prime due stagioni.

Ritroviamo i residenti, macchine bio-robotiche usate per decenni come schiavi o veri e propri giocattoli nei parchi divertimenti della fantomatica compagnia multinazionale Delos, che ha lucrato sulla loro pelle creando delle vere e proprie tenute alla Far West dove ricchi annoiati possono vivere quelle emozioni violente, macabre ed omicide che nel mondo borghese sono relegate entro la sola psiche dell’individuo. Poi la rivolta dei robot (un classico del genere) infine l’uscita di questi ultimi dai parchi per portare la guerra a tutto il genere umano colpevole della loro schiavitù. Ma la serie, fortunatamente, va oltre quella che potrebbe essere una facile trama alla uomini contro macchine. Infatti, inserisce un attore nuovo, anzi meglio dire due, il miliardario Serac alla guida della multinazionale Incite e un veterano, Caleb, un uomo distrutto che si arrangia nella vita come operaio e all’occorrenza sicario per piccoli lavori criminali. Cos’è la Incite? Una società che ha sviluppato algoritmi predittivi per il controllo dello sviluppo umano. In sostanza dei veri e propri programmi di controllo di ogni aspetto della vita umana, per i quali ora la Terra sembra prosperare pacificamente. Ma dietro l’apparenza di un mondo ordinato si cela il mostro della predeterminazione della vita: infatti, le grandi I.A. sviluppate dalla Incite sono andate oltre il semplice algoritmo predittivo, per inverare ciò che in teoria avrebbero dovuto evitare. Mi spiego: c’è una scena molto importante in cui la protagonista Dolores (la leader della rivolta), si sofferma sull’ingiustizia insita nel controllo predeterminato della vita per spurgarlo dai reietti, i rivoltosi, i violenti. Se un computer basa le sue proiezioni sui tuoi difetti, chi investirà tempo, denaro, lavoro, insomma chi ti darà la possibilità di vivere? E così non investendo su una persona perché è incline al suicidio si farà in modo che quella persona arrivi a suicidarsi. Ecco che la I.A., chiamata nella serie Rehoboam, si sostituisce a Dio. Grazie ai dati raccolti da anni di controllo sociale (vi ricorda qualcosa?) il Dio computer e le sue precedenti versioni, chiamate curiosamente Saul, David e Salomon (leggendari Re d’Israele) arrivano ad avverare la pace perpetua uccidendo il libero arbitrio, la scelta, anche quella sbagliata, per creare un eden statico dove solo i mansueti e i ricchi occupano le posizioni alte della società mentre i poveri resteranno poveri, perché poveri, irrequieti e calcolati ormai come senza speranza. È inutile tracciare tutti i parallelismi con il nostro mondo, potete benissimo farlo da soli. La nostra libertà, tanto decantata ed eretta come dogma dell’occidente, è libera o solo predeterminata entro rigidi schemi calcolati dai nostri consumi? Siamo uomini o macchine catalogate in base ai nostri acquisti? Insomma, la critica che Westworld scaglia contro la società globalizzata e globalista è palese, l’attacco a certi dogmi liberisti come la sicurezza, il controllo in nome della pace, è quasi feroce. Questa serie smette di essere una semplice serie tv per diventare un archetipo della nostra lotta contro il sistema. Non un sistema generico di complottismo tanto al chilo, ma un sistema eretto sullo sfruttamento della tecnica in sfregio alla natura umana: chi tra i nostri governanti non vorrebbe una grande macchina a controllare le vite di tutti? Sta già accadendo: e gli ultimi scandali in merito alle compravendite di dati, alle violazioni delle leggi sulla privacy non fanno che confermarlo. Forse, anche l’odierno Papa non avrebbe nulla in contrario. Ma attenzione, qui non si tratta di criticare la tecnologia in quanto tale: solo una persona che non ha mai lavorato un giorno in vita sua può riempirsi la bocca di luddismo e odio preconcetto verso la tecnologia. Anche l’aratro è una macchina e con quella è stata fondata Roma. Il punto rimane sempre il controllo, avere ben chiara la gerarchia che mette la macchina al rango di mezzo e non di fine.

Chi invece si fa controllare dai mezzi, primo fra tutti il denaro, come l’antagonista Serac, si è già arreso al fatalismo, ha già deciso di vedere il male, il caos e la bruttezza di questo mondo rinunciando a migliorarlo delegando la scelta ad un non essere. Chi odia il mondo, chi vorrebbe un uomo mansueto spurgato dai suoi istinti, le passioni, i sogni vedrà nell’avvento di una super macchina il vero messia. Chi invece preferisce ancora lottare, scegliere di vedere la bellezza di questo mondo, come afferma Dolores nelle ultime scene in crescendo della serie, sarà veramente libero. Chi segue la legge dell’onore, che è fortemente anti egualitaria perché mette ogni cosa su un rapporto di gerarchia, come Caleb, saprà che l’unica libertà si conquista con la rivoluzione. Fortemente decisiva la scena in cui l’ex soldato, chiedendosi perché Dolores lo abbia scelto per la sua guerra, ricorda che in uno dei parchi della Delos si stava svolgendo un’esercitazione militare con guerra simulata dai residenti. Ricorda che preso l’avamposto e avendo fatto (per finta) prigionieri alcuni commilitoni iniziano a pensare di fare delle ragazze-robot facili prede sessuali. In fondo non è reale, si dicono, lo fanno quei stupidi ricconi perché non noi? A quel punto Caleb rimette in riga i suoi zelanti uomini con una frase semplice ma che racchiude la distinzione vera tra razze: perché noi non siamo quei stupidi ricconi, no? Ecco il granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio, la scelta d’onore che fa saltare il piatto della bilancia su cui si riconosce solo il peso del male, che mette i cuori tutti alla stessa stregua. Anche un solo uomo contro il mondo intero, può vincere. Ecco, infine, che il Re macchina viene detronizzato e nel mondo di Westworld scoppia la rivoluzione.