Di Lemmy

Correva l’anno 2006, quando si seppe che Angelo Rovati, consigliere di Romano Prodi a Palazzo Chigi, aveva inviato all’allora presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, un piano per staccare l’infrastruttura di rete telefonica (che poi si sarebbe trasformata nella rete internet odierna) e metterla in una nuova società partecipata dalla Cassa depositi e prestiti. La situazione venne accompagnata da polemiche fortissime.

Si trattava fondamentalmente di un dibattito sull’ingerenza del potere politico in una società quotata in Borsa.

Quattordici anni dopo, la situazione si ripete: è recentemente apparsa l’indiscrezione secondo la quale, agli inizi del mese di agosto, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrebbe telefonato all’amministratore delegato di TIM Luigi Gubitosi, durante una riunione del consiglio di amministrazione, per suggerirgli di rimandare la decisione sull’ingresso del fondo americano KKR in FiberCop.

FiberCop sarebbe una nuova società creata ad hoc per la gestione delle infrastrutture di rete nazionali. Palazzo Chigi si è limitato a ribadire «il forte interesse del governo a promuovere una rete nazionale integrata a banda ultralarga per realizzare una infrastruttura strategica per il Paese».

Tutto in una indifferenza eclatante dell’opinione pubblica.

Spieghiamoci meglio: in un’economia di mercato non è normale un intervento del capo o di un membro dell’esecutivo, in questa modalità, su una società privata e quotata. Certo, le pressioni ci sono sempre, in qualunque Paese. Ma la forma è sostanza. E fa l’immagine internazionale di un Paese oltre che del suo sistema economico. Il tutto si traduce in una situazione che è il discrimine fra le democrazie evolute e quelle in cui il potere (non solo politico, bensì anche quello economico-imprenditoriale) conserva ampi margini di arbitrarietà.

Le motivazioni dietro questa cessione? La necessità da parte del governo di migliorare la dotazione infrastrutturale, dare una spinta alla digitalizzazione, e tanti altri bei vantaggi per i consumatori e i cittadini, che usufruirebbero di una rete “al livello degli standard esteri”… Oppure allargare l’area d’intervento e di potere dello Stato di facciata, controllato e pressato da UE?

Ma quali sono i personaggi di questo ulteriore atto che rischia di intaccare un altro pezzo di sovranità al nostro Paese?

KKR & Co. L.P.(precedentemente conosciuta come Kohlberg Kravis Roberts & Co.) è un operatore internazionale di private equity. Queste due parole, totalmente oscure a chiunque non mastichi un po’ di finanza, si riassumono e trovano un senso se tradotte nella loro simpatica descrizione. La private equity è una attività finanziaria mediante la quale un’entità, di solito un investitore istituzionale, rileva quote di una società definita obiettivo, sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all’interno dell’obiettivo. In particolare la KKR è specializzata nel segmento di leveraged buyout, con sede a New York. Dalla sua fondazione, la società ha completato oltre $ 400 miliardi in transazioni nel settore del private equity, nel 2017 la somma amministrata è di $153 miliardi.

Anche qui, il leverage buyout (LBO) è una tecnica di acquisto di una partecipazione (totalitaria o di controllo) di una società, di un’azienda, di un ramo d’azienda o di un gruppo di attività (target), che ha come caratteristica quella di ricorrere al debito per finanziare la maggior parte del valore di acquisto. Il rimborso del debito così contratto è collegato alla generazione di flussi di cassa e/o alla cessione di attività del target.

Fino al 2003 in Italia vi era un espresso divieto di porre in essere operazioni di LBO, poiché strumento di aggiramento per interposta persona del divieto di sottoscrizione di azioni proprie (art.2357 c.c.) e del divieto di assistenza finanziaria per la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie.

Le attività di LBO sono state espressamente rese lecite nell’ordinamento giuridico italiano a seguito della riforma del diritto societario del 2003, la quale ha permesso di superare i dubbi di legittimità che venivano sollevati sulla base del divieto, contenuto nel primo comma dell’art. 2358 c.c. che inibisce alle società di accordare prestiti o concedere finanziamenti per l’acquisto di proprie azioni.

Chiusa il preambolo tecnico (d’obbligo per chi di economia e finanza ne volesse approfondire), passiamo a trarre delle conclusioni.

Se questa operazione dovesse finire in porto, ci troveremmo con una potenziale rete internet estesissima e efficacissima “al livello delle connessioni estere, per prevenire i sovraffollamenti verificatisi durante il lockdown” (già sta roba mi puzza…), ma con una società non sotto il controllo dello Stato a gestirla. Ovvero perdendo un’altra bella fetta di sovranità, come già detto in precedenza.

L’ipotesi di lavoro – secondo la ricostruzione dell’Ansa – è quella di un primo nucleo della società per la rete unica nella quale TIM (Telecom Italia Mobile) potrebbe mantenere il 50,1%, ma che avrà una governance plurale e “terza”. In attesa che anche Open Fiber (controllata pariteticamente da ENEL e CDP) possa poi confluire per dar vita a tutto tondo alla società unitaria della rete.

La soluzione migliore, per evitare di mettere in mano estera TUTTA (o perlomeno una buona parte delle azioni in percentuale della nuova società) la rete infrastrutturale italiana, sarebbe quella di far vendere a CDP la propria partecipazione in Open Fiber, per consentirle di accrescere ulteriormente quella in TIM. ENEL, quale azionista di OF insieme a CDP, avrebbe tutto l’interesse di sviluppare Open Fiber e offrire ai suoi clienti, insieme alla fornitura elettrica, anche la banda ultralarga, sfruttando il rinnovo dei contatori.

E in tutto ciò la politica non ne parla.

L’unica è stata Giorgia Meloni, paladina del sovranismo (poco più che spiccio), di cui riportiamo parte delle dichiarazioni.“Non vogliamo”, scrive la leader di Fratelli d’Italia, “che potenti operatori stranieri o fondi speculativi possano minare la sicurezza delle nostre infrastrutture strategiche sulle quali viaggiano dati sensibili della PA o del nostro sistema industriale. È la stessa visione che abbiamo anche su tutte le altre reti e infrastrutture strategiche: la proprietà deve essere pubblica mentre la gestione può essere pubblica o privata, purché nel rispetto della concorrenza e dell’interesse nazionale”.

E ancora, sempre da Fratelli D’Italia, “Il governo faccia chiarezza sull’invio di una lettera firmata dai ministri Gualtieri e Patuanelli e sulla telefonata tra il presidente del Consiglio Conte e l’AD di Telecom Gubitosi che sarebbe avvenuta nel mezzo dei lavori del CdA di Telecom”, ha dichiarato Alessio Butti.

Secondo alcune indiscrezioni di stampa, peraltro mai smentite”, ha aggiunto il deputato, “il motivo del colloquio sarebbe stata la richiesta del governo di sospendere gli accordi tra il fondo USA KKR e Telecom (…) Se la vicenda fosse confermata, si ravviserebbe una pesante interferenza dell’esecutivo Conte nelle dinamiche di una società privata, a guida straniera”. “Ci aspettiamo dalla Presidenza del Consiglio chiarimenti urgenti”, ha concluso Alessio Butti, deputato di Fratelli d’Italia e responsabile TLC di FDI, annunciando una interrogazione al governo.

[AGGIORNAMENTO]

È notizia di stanotte l’ufficialità dell’accordo tra KKR Infrastructure e Fastweb per la costituzione di FiberCop. La società americana acquisterà quasi il 40% della nascente FiberCop. Pertanto, la nuova rete italiana in fibra – d’importanza strategica per il Paese in ottica di sovranità tecnologica e digitale – è da considerarsi già parzialmente in mano straniera.