Di Vov

A partire dal primo giorno di proteste per la morte di George Floyd, gli Stati Uniti sono diventati teatro di un tragicomico reality-show in perfetto stile hollywoodiano.

La popolazione nera americana, affiancata dai bianchi liberal-progressisti, è scesa in piazza per manifestare contro i soprusi della polizia a stelle e strisce, rea di passare al grilletto troppo facilmente e di aver soffocato – sia fisicamente che idealmente – il discriminato per eccellenza (il nigga dei sobborghi, tipo CJ – Carl Johnson per i profani – di GTA San Andreas) secondo la vulgata del politicamente corretto.

Lungi dal voler difendere la polizia (in particolar modo i macellai del 911 pronti a ficcarti il contenuto di un caricatore Glock in corpo), va osservato come i fatti poco contano al tempo delle storie commoventi su Instagram e dei “I can’t breathe” gridati ai quattro venti (mentre poi si tace sulle mascherine soffocanti imposte dalla dittatura sanitaria). Poco importa, in-fatti, se il povero Floyd era un pluripregiudicato con alle spalle diverse condanne, arrestato dalla polizia dopo aver fatto spesa in un minimarket con delle banconote false e in uno stato psicofisico alterato. È vero, non bisogna giudicare un uomo dal suo rapporto con la giustizia (lo sappiamo, spesso legalità – e mi viene un brivido pensando ai pentastellati – e giustizia non sono la stessa cosa), ma almeno forse andava considerato il fatto che al momento dell’arresto la vittima era strafatta di Fentanyl(un oppiaceo sintetico). Curioso poi come il Daily Wire riportasse a firma della giornalista Amanda Prestigiacomo (no, non è una delle veline del Berlusca) un articolo in cui il referto dell’autopsia escludeva la morte per asfissia, avanzando l’ipotesi dell’overdose: peccato che l’articolo sia stato rimosso celermente dal web. Forse Amanda s’era sbagliata oppure, chissà, la verità poteva danneggiare l’ondata di hashtag Black Lives Matter (BLM) che ha invaso ogni angolo del globo (a parte i Paesi euroasiatici nella fascia Mosca-Pechino).

Premesso quindi che il CJ di Minneapolis non era di certo un martire, concentriamoci sulle proteste e sulle dinamiche che da mesi interessano gli Stati Uniti. Certo, si potrebbe pensare tipo Italiano Medio di Maccio Capatondae a me che cazzo me ne frega dell’America? C’ho Sarvini” oppure si potrebbero inventare nuovi giochi di parole camerateschi tipo ameri-cani, evitando quindi di pensare che un Paese dall’altra parte dell’Atlantico possa influenzare le nostre vite.

Peccato che gli Stati Uniti siano la Nazione imperante (non imperialista, dato che l’Impero è qualcosa che non fa proprio per gli yankee) a livello globale che impone la propria agenda politica, seguita a ruota da quella finanziaria e culturale. Peccato che le multinazionali americane siano proprio quelle entità gigantesche capaci di plasmare i nostri consumi, le nostre scelte e i nostri gusti, indirizzandoci verso una sorta di dipendenza tecno-sociale. Pertanto, quello che succede in Amerika (partono intanto i Rammstein) ci deve interessare – soprattutto se a livello sociale – perché il modello multiculturale statunitense viene visto da numerosi Paesi europei come un esempio da seguire (“è bello perché vario”).

Appurato che le faccende geopolitiche d’oltreoceano siano da osservare con attenzione, arriviamo finalmente alla trama di questo reality-show che va in onda filtrato sulle TV e più crudamente sui social, da Instagram a Reddit, passando per qualche sito complottista suprematista terrapiattista.

Attingere alle fonti non è semplice, dato che non c’è una garanzia di assoluta veridicità, ma sicuramente è necessario se si vuole guardare oltre la versione mediatica.

I media americani, seguiti a ruota libera dai media italiani, parlano di “pacifiche proteste dei BLM e degli attivisti anti-Trump, caratterizzate ogni tanto da isolati casi di scontri e violenze, principalmente con qualche “suprematista bianco provocatore”. Il problema è che queste manifestazioni spesso finiscono in una caccia ai repubblicani e ai pro-Trump: in un video si vedono antifa (sì, sempre loro, ma in versione hot dog e ketchup) che urlano contro una coppia seduta al bar che rifiuta di alzare il pugno per esprimere solidarietà al movimento BLM; in un altro video degli afroamericani cercano dei trumper per malmenarli (“We got a trumper right here!“) anche se poi finisce con una sparatoria in cui probabilmente il sostenitore di Trump con la tessera dell’NRA (National Rifle Association) ha avuto la meglio.

Insomma, dietro a queste masse di protestanti lodate da TV e personaggi pubblici di mezzo globo, si nascondono veri e propri episodi di razzismo e di odio ideologico. Parlare a favore dei repubblicani americani non è semplice, soprattutto quando si presentano armati di fucile d’assalto e con lo scudo di Capitan America per difendere non tanto il loro diritto a vivere ma la proprietà privata, ma di fatto è in corso un attacco all’uomo bianco. Con la scusa del white privilege, che poteva essere buona ai tempi del KKK, si demonizza il cittadino americano, soprattutto se simile a Trump: bianco, benestante, over 50. Poco importa se magari si è fatto il culo per tutta la vita – seguendo ahimé le logiche capitaliste – per crearsi una famiglia e una reputazione, invece di spacciare in da street tra un pollo fritto e un cocomero (riascoltate il discorso del Sergente Maggiore Hartman).

Il problema qui non è rappresentato dagli Stati Uniti in rivolta.

Il problema è la totale non considerazione dei fatti.

Attenzione signori, perché nel momento in cui il pensiero si riduce ad una deduzione sulla base di ciò che i media propinano, significa che si sta perdendo il senso delle cose.

Qui c’è una chiara intenzione di proporre una versione cotta e ben condita dei fatti stile fast-food: veloce, facilmente condivisibile (a livello ideale e sui social) e poco dispendioso.

Qui si sta cercando di imporre una dittatura del pensiero: al bando lo spirito critico, alza questo pugno in favore della riscossa dei neri americani contro il white privilege.

Fortunatamente non siamo americani e abbiamo una storia millenaria, oltre che una visione ideale e filosofica della vita, che può aiutarci a vedere oltre le tante parole.

Pensiamo al diciassettenne americano Kyle Rittenhouse che, per difendersi da un’aggressione multipla, dopo essere finito a terra, ha aperto il fuoco col suo fucile (sì, nel Wisconsin si può girare armati con l’arma ben visibile) contro gli assalitori, uccidendone due e ferendone un terzo.

Pronto il titolo per i giornali: “giovane suprematista bianco spara contro pacifici attivisti”.

Poco importa, ancora una volta, se gli attivisti stavano mettendo a ferro e fuoco il quartiere di Kyle.

Poco importa se le due vittime, Joseph Rosenbaum di 36 anni e Anthony Huber di 26 anni, avessero già dei precedenti rispettivamente per abusi su minori e per violenza domestica.

Poco importa se il ferito, Gaige Grosskreutz di 26 anni, avesse illegalmente una pistola in mano visti i precedenti per furto, abuso di alcol e di droghe.

Poco importa, it doesn’t matter, se la raccolta fondi in favore delle spese legali del giovane Rittenhouse sia stata interrotta da GoFundMe.

Evidentemente, alcuni fatti non importano.

Evidentemente, alcune vite non importano.

Come quelle spente in questi mesi a causa di assassini non proprio albini coperti dall’euforia BLM. Come il tizio bianco che passeggia tranquillamente per Portland e all’improvviso viene colpito alla testa con un mattone da dietro, il tutto filmato per testimoniare la bravata.

Pertanto ora più che mai è necessario riflettere sulla nostra posizione di uomini in questa epoca turbolenta, dove i like e le reaction contano più della realtà.

Se sappiamo chi siamo e dove vogliamo andare, forti delle nostre radici e della nostra perenne sfida alle stelle, sapremo allora fronteggiare questa delirante modernità.

La prima vera barricata è ideologica e culturale, trovandoci a combattere in difesa del vero, del giusto e del bello.