Di Michele

Ci sono autori che, per dirla con Nietzsche, sono nati postumi. Scrittori che anticipano i tempi e ne custodiscono i germogli futuri. Uno di questi è sicuramente Edgar Allan Poe. Americano della prima metà dell’ottocento, poeta maudit se mai ce ne è stato uno, romanziere, autore di numerosissimi racconti che spaziano dal genere fantastico all’horror, fino al poliziesco. Scrittore crepuscolare ancor prima che sull’Occidente s’allungassero le ombre del proprio tramonto, cioè del nichilismo.

Prendiamo, ad esempio, un racconto come Una discesa nel Maelström. Siamo all’estremo nord della Norvegia. Una stretta lingua di terra e roccia si getta a strapiombo sul mare. Siamo su un picco chiamato Helseggen, ovvero il nuvoloso, nel distretto di Lofoden. Sotto le acque gorgogliano impetuose. Lo scenario che descrive Poe è “il paesaggio più desolato che mai immaginazione umana potrebbe concepire. A destra e a sinistra, fin dove poteva spingersi lo sguardo, si allungavano a strapiombo sul mare file di cime rocciose orribilmente nere, quasi fossero i bastioni del mondo. L’impressione di cupezza era amplificata dalla risacca spumosa che vi s’infrangeva contro con creste biancastre e spettrali, urlando e strepitando in eterno1.

Siamo sull’orlo dell’abisso, del finis mundi, nelle nere tenebre. Il tumulto delle onde riecheggia come in uno spazio vuoto. Ecco un’immagine perfetta del nulla del nichilismo: un pericolo solo presentito, un’angoscia senza un oggetto preciso, una forza cieca che trascina verso il basso, nel vuoto. Solo un sottile strato di terra umida e scivolosa ci separa da esso, dalla caduta. Ma ancora non abbiamo ancora di fronte la punta massima dell’annientamento, della discesa. Tra la cima dello Helseggen e la vicina isola di Moskoe la profondità delle acque crea uno gorgo spaventoso: il Maelström. La forza delle correnti in conflitto tra loro danno vita ad una accelerazione di una velocità incredibile. La voragine originata da questo movimento attrae e distrugge tutto ciò che le capita a tiro. Oltre agli sfortunati navigatori, pure le forze della natura sembrerebbero sottomettersi alla furia del Maelström. Orsi e balene ne vengono inghiottiti e ne sono preda, una volta perfino le stesse pietre delle case sulla costa sarebbero crollate in un momento di particolare impeto del Maelström.

Ce ne parla anche Ernst Jünger nel Trattato del Ribelle, quando ha bisogno di immagini per descrivere la pressione distruttrice del nichilismo: “un filo diretto ci porta da queste considerazioni a Edgar Allan Poe. La cosa straordinaria di questo autore è la sua sobrietà. Udiamo il motivo conduttore ancora prima che si alzi il sipario e fin dalle prime battute capiamo che lo spettacolo sarà minaccioso. Le figure, sia pure nella loro matematica secchezza, sono figure del destino – e questo conferisce ad esse un fascino impareggiabile. Il suo Maelström è l’imbuto, il vortice irresistibile che ci risucchia nel vuoto nel nulla2.

Sono brevi gli istanti di pace concessi dal Maelström, nel migliore dei casi durano un quarto d’ora. Poi la violenza ricomincia. Quanto basta per tre fratelli per sfidare la corrente alla ricerca di migliori zone di pesca. Ma durante una delle traversate, nonostante le molte precauzioni, qualcosa va storto. Un’improvvisa tempesta li spinge verso il Maelström. La barca viene trascinata dal movimento vorticante del Maelström, il minore dei fratelli viene sbalzato fuori bordo. La discesa verso il centro del gorgo, verso l’annichilimento, continua inesorabile. Il maggiore dei fratelli viene preso dal panico e scalza l’altro fratello dalla sua posizione, ovvero un grosso anello a cui restare aggrappato alla base dell’albero di trinchetto, ritenendo sia quella più sicura. Così l’altro fratello – il nostro narratore – si separa dalla maniglia e con il cuore pesante per il tradimento del fratello cerca un’altra posizione. Intorno l’atmosfera è quella di un sogno, o meglio di un incubo. “non potrò più dimenticare la sensazione di stupore, orrore, ammirazione per ciò che potevo vedere intorno a me. La barca sembrava sospesa, come per magia, a metà discesa sull’interna superficie di un imbuto dall’ampia circonferenza e dall’incredibile profondità, e le cui pareti, perfettamente lisce, potevano essere scambiate per ebano, non fosse stato per la sconcertante velocità con cui ruotavano, e per una luminosità spettrale che emanavano, poiché i raggi della luna piena, da quell’apertura circolare fra le nuvole […] si riversavano in un flusso di dorata gloria lungo quelle mura nere, e scendevano giù, fino ai più nascosti recessi dell’abisso3.

L’attenta osservazione dello scenario circostante gli fa venire un’idea. Tra le molte cose prese nel vortice, piccoli oggetti, come tronchi d’albero e barili, vengono trascinati verso il fondo molto più lentamente rispetto a quelli più grandi. Se fosse riuscito a mantenersi nel vortice, senza arrivare al fondo e quindi senza venire spinto e distrutto dai flutti, per il tempo necessario affinché la corrente della marea cambi direzione dando vita ad un riflusso, sarebbe stato salvo. Si posiziona su un barile agganciato al ponte di poppa. Ragiona sulla forma del barile, la quale, essendo cilindrica, dovrebbe essere d’aiuto a rallentare la caduta. Non la perfezione di una sfera, né la totale imperfezione dei relitti. Fatte queste considerazioni e dopo aver disperatamente cercato di convincere il fratello a fare lo stesso, si assicura con delle corde al barile e lo sgancia dalla nave. Gli avvenimenti successivi danno ragione ai sui calcoli. Il peschereccio precipita sempre più velocemente e sempre più a fondo, fino a scomparire. Al contrario il barile discende lentamente e finalmente il momento tanto atteso cambia. A un passo dall’annientamento, la corrente e la struttura stessa del vortice cambiano: il pendio delle pareti del vasto imbuto si fece a mano a mano meno ripido. I suoi giri divennero via via meno vorticosi. Gradualmente, la foschia e l’arcobaleno disparvero, mentre il fondo del vortice sembrò lentamente sollevarsi. Il cielo era sereno; il vento era cessato; e la luna piena calava splendendo a ovest4.

Il nostro protagonista si salva. L’esperienza del nichilismo pretende il suo attraversamento, il suo superamento. Paradossalmente a salvarsi è chi è riuscito ad alleggerire il proprio carico, ad eliminare in se stesso il superfluo e ad accettare fino in fondo il pericolo, senza cioè ancorarsi a false sicurezze. Una barca di pescatori lo raccoglie dal mare, ma qualcosa è mutato per sempre: quelli che mi avevano caricato sulla barca erano i miei vecchi compagni d’ogni giorni, eppure non mi riconobbero più di quanto avrebbero potuto riconoscere uno che giungesse dalla terra dei morti. I miei capelli, di un nero corvino fino al giorno prima, erano diventati bianchi, come voi li vedete ora. Si dice che anche la mia espressione sia mutata5.

Si potrebbe e si dovrebbe opporre a questo precoce invecchiamento, descritto da Poe, il riso del superuomo nietzscheano: “un trasformato, un circonfuso di luce che rideva!6. Segni opposti. Dal pessimismo di Poe, all’ottimismo di Nietzsche. La distruzione apre a nuove possibilità, ad un radicale rinnovamento. Non c’è più nulla da conservare. Ma lo spirito negatore del nichilismo costituisce una prova: soccombere o vincere. Siamo su un confine, su un fronte che è quello dell’Essere. Bisogna trasformare il veleno della negazione e affermare il nietzscheano sì alla vita, ovvero affermare l’Essere contro il dilagare del nulla, con la promessa che se si ha la meglio “il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso7.

1 E. A. Poe, Misteri, Baldini Castaldi Dalai, Milano, 2006, p. 147

2 E. Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano, 2012, p. 43

3 E. A. Poe, op. cit., p. 162

4 Ivi, p. 166

5 Ivi, p. 167

6 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2012, p. 186

7 E. Jünger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 2010, p. 104