di Michele

In questo articolo faremo un’operazione quasi archeologica, andando a scavare nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Il poema pubblicato con qualche vicissitudine editoriale sul finire del XVI secolo, è uno degli indiscussi capolavori della letteratura italiana. Poema di un’epoca di passaggio, in cui si addensano dubbi, inquietudini e ombre. Poema d’una cavalleria santa, contrapposta a quella profana e avventurosa dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Poema di contrasti, perché contrasta col proprio tempo, perché narra come in un sogno l’apogeo dell’Europa come Cristianità – quale era nel Medioevo – mentre in quegli anni Lutero aveva frantumato l’unità di quel mondo.

Il pretesto del poema è abbastanza ovvio: la narrazione della prima crociata. Crociata vittoriosa che culminò con la conquista di Gerusalemme. Ma al dramma storico si aggiunge quello divino, che Tasso rappresenta come una titanomachia fra le forze celesti del Dio cristiano e quelle dell’inferno. La Croce sembra rivestire antichi stilemi e Gerusalemme appare come un’altra e fatale Ilio. I guerrieri musulmani che i paladini crociati devono fronteggiare appaiono tutti giganti pronti a dare l’assalto all’Olimpo. Lo scontro finale fra gli eserciti dell’Asia e quelli dei crociati ricalca quello fra persiani e greci. Tuttavia se il poema lascia spazio a topoi che fanno parte della memoria ancestrale europea, il cristianesimo aggiunge un senso morale, un’assolutizzazione di bene e male, che all’antichità erano estranei.

Di tutta la materia della Gerusalemme liberata scegliamo però di parlare di una figura in particolare, quello del cavaliere come archetipo della tradizione europea, e lo faremo trattando il Canto XVI.  Questo canto è quello del giardino di Armida e del risveglio guerriero di Rinaldo. Riassumendo i fatti precedenti, il campo crociato vive un momento di grave difficoltà. Dopo aver respinto un primo assalto alle mura, gli infedeli a difesa di Gerusalemme sono riusciti a dare alle fiamme le armi d’assedio dei crociati durante una sortita notturna. I crociati così non possono muovere altri attacchi alla Città Santa e non possono nemmeno costruire nuove torri d’assedio, perché l’accesso all’unico bosco della zona, quindi al legname necessario per la costruzione delle torri, è loro impedito da un sortilegio del mago musulmano Ismeno. Il tempo per conquistare la città è però agli sgoccioli, il re d’Egitto con il suo immenso esercito è in marcia per portare soccorso al re di Gerusalemme.

Viene organizzata una spedizione, cui fanno parte Ubaldo e Carlo, per rintracciare Rinaldo. Quest’ultimo è uno dei principali campioni del campo crociato, da cui è stato allontanato con l’accusa di aver ucciso il commilitone Gernardo in uno scatto d’ira, dal quale era stato gravemente offeso e insultato con lingua “del venen d’Averno infusa”.

Rinaldo si trova presso le Isole di Fortuna “ove in perpetuo april molle amorosa / vita seco ne mena il suo diletto”. Lì il giovane cavaliere “delira / e vaneggia ne l’ozio e ne l’amore”. È nelle mani della bella Armida, maga e incantatrice dell’avverso campo. Grazie all’intervento del Mago d’Ascalona, Ubaldo e Carlo attraversano l’intero Mediterraneo, l’intero mondo conosciuto, e giungono finalmente alle Isole di Fortuna, dov’è il meraviglioso palazzo di Armida. Arrivano attraverso un lungo labirinto al centro del palazzo, il quale cela un giardino. Soffermiamoci un momento sulle prove che Ubaldo e Carlo devono affrontare. Prima di accedere al palazzo hanno superato un terribile serpente dalle squame dorate, un irato leone, una schiera di guerrieri deformi, la fontana del riso ed il canto delle sirene. Tutte prove dal significato simbolico abbastanza evidente (il serpente come richiamo alle forze ctonie, il leone come passionalità, i guerrieri deformi come rischio di una disumanizzazione e di una mutilazione tanto spirituale quanto fisica, la fontana del riso e il canto delle sirene come lusinghe di mollezza edonistica), prove che si sintetizzano nell’immagine del labirinto in quanto cammino iniziatico che porta verso il «centro». Fatto abbastanza curioso, Ubaldo e Carlo non percorrono questo cammino per sé stessi, ma affinché un altro – cioè Rinaldo – possa ritrovarsi e riscoprire se stesso. Siamo finalmente di fronte allo splendido giardino di Armida. Inganno e natura si mescolano, parodiando la bellezza di un Eden che è però irreale:

L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto,

l’aura che rende gli alberi fioriti:

co’ fiori eterni eterno il frutto dura,

e mentre spunta l’un, l’altro matura.

Al posto del «centro», inteso come realizzazione spirituale e culmine del cammino iniziatico, vi è la sua parodia, il suo rovesciamento. La natura che fiorisce e si eterna nel giardino di Armida rappresenta la massima falsità, ovvero la materia che si crede immortale. La verticalità e l’ascensione connesse al simbolismo del «centro» si rovesciano in una orizzontalità triviale. La vittoria della materia ha uno specifico senso morale. Senza un asse verticale, senza un richiamo a ciò che è spirituale, le virtù decadono. Non c’è posto per coraggio, forza e onore nel giardino di Armida, ma solo per stanchi sospiri e ancor più stanchi baci.

Quello che colpisce e la mancanza di intima vitalità della scena. Il tempo sospeso del giardino, con la sua perdurante primavera, viene scandito dal ritmo lento della noia. La materia, se non è vivificata dallo spirito, è infatti cosa morta. I due amanti se ne stanno abbracciati, Rinaldo poggia il capo sul grembo di Armida e “i famelici sguardi avidamente / in lei pascendo si consuma e strugge”. Lei, semivestita e col seno nudo, pende dall’alto su di lui e di volta in volta “s’inchina, e i dolci baci ella sovente / liba or da gli occhi e da le labra or sugge”. Ma al di là di questo idillio, di questo languore, vi è qualcosa che stride:

Dal fianco de l’amante (estranio arnese)

un cristallo pendea lucido e netto.

Sorse, e quel fra le mani a lui sospese

a i misteri d’Amor ministro eletto.

Con luci ella ridenti, ei con accese,

mirano in vari oggetti un solo oggetto:

ella del vetro a sé fa specchio, ed egli

gli occhi di lei sereni a sé fa gli spegli.

Si introduce qui il tema dello specchio, che possiamo connettere ancora una volta con quella del «centro», ovvero come conoscenza e visione del sé in senso profondo, cioè spirituale. In questo caso abbiamo ancora il suo rovesciamento. Lo specchio diventa lo strumento di una vanità egoistica (quella di Armida) o di una perdita dell’io (nel caso di Rinaldo), come ci fa notare lo stesso Tasso: “l’uno di servitù, l’altra d’impero / si gloria, ella in se stessa ed egli in lei”. In un’accezione più moderna potremmo dire che in questo caso la specchio si fa simbolo dell’individualismo e della massificazione, che sono facce della stessa medaglia, dello stesso io malato.

È un altro rispecchiamento a far rientrare in sé stesso Rinaldo. Armida si allontana da Rinaldo, Ubaldo e Carlo approfittano del momento e balzano fuori dal loro nascondiglio. La vista delle armi dei due cavalieri produce un primo shock nell’animo di Rinaldo:

Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente

suo spirito a quel fulgor tutto si scosse,

benché tra gli agi morbidi languente,

e tra i piaceri ebro e sopito ei fosse.

I due cavalieri irrompono nello spazio smorto del giardino di Armida come una forza elementare. Il richiamo delle armi è il richiamo del pericolo, vale a dire della vita stessa. Come gli aveva intimato il Mago d’Ascalona, Ubaldo volge verso il giovane uno scudo.

Egli [Rinaldo] al lucido scudo il guardo gira,

onde si specchia in lui qual siasi e quanto

con delicato culto adorno; spira

tutto odori e lascivie il crince e ‘l manto,

e ‘l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira

dal troppo lusso effeminato a canto:

guernito è si ch’inutile ornamento

sembra, non militare fero instrumento.

Nello scudo vede sé stesso. Gli appaiono evidenti la sua debolezza, la sua meschinità, la sua viltà. La spada che gli pende inutilmente al fianco. Quello che è e quello che dovrebbe essere stridono apertamente. Rinaldo se ne vergogna. Le parole degli amici lo strappano finalmente dal torpore, richiamandolo all’ordine. Il destino di Rinaldo sembra riassumersi in quello che gli dirà Goffredo di Buglione, capitano dei crociati, al suo ritorno: “or colà dove / paventan gli altri, il tuo valor si prove”. Qui si condensano il primato dell’azione, l’essere esempio, l’eccezionalità di uno spirito nobile, la religione del coraggio, in altre parole l’essenza dell’uomo d’arme. Quest’ultimo è un tipo umano che attraversa tutta la storia dei popoli europei: “primo grande poema epico, l’Iliade è anche il primo racconto di cavalleria. Per convincersene, basta compararne il contenuto con i modelli dell’epoca medioevale: La Chanson de Roland, i romanzi del ciclo arturiano o le saghe scandinave. Salvo qualche sfumatura, vi è descritto lo stesso uomo trasportato dagli stessi sentimenti e dallo stesso spirito, che pratica a gran colpi di spada il medesimo modo di combattere chiassoso, eroico e disordinato nella giovinezza di un’epoca feudale”. Tipo umano che si risveglia e si attualizza in ogni epoca storica, anche nella nostra.