Di Sergio

Uscito da pochissimi giorni sulle piattaforme di streaming digitale, Netflix in testa, il film di Aaron Sorkin “The trial of the Chicago 7” ha riportato sulle luci della ribalta e all’attenzione del grande pubblico il clima bollente e magmatico del 1968.

Definito da molti (forse non completamente a torto) il processo del secolo, quello che andò in scena dal settembre del 1969 al febbraio del 1970 è un vero e proprio capolavoro di in-giustizia americana, dove interessi politici e ideologici si mescolano in un torrido clima di repressione. Premetto: non è un caso che la pellicola esca in un momento storico degli Stati Uniti d’America come questo.

La corsa alle elezioni di novembre è all’ultimo miglio e gli animi mai esacerbati come lo sono ora. Che vinca Biden o Trump è d’importanza marginale, non per noi ovviamente, ma se osserviamo bene lo sfondo si vedrà una nazione divisa ed intimamente lacerata a prescindere dal risultato della tornata elettorale. Dal Coronavirus al Black Lives Matters il clima che si respira oltreoceano è tutt’altro che quieto: la polarizzazione delle opinioni sulla scala “bene vs. male” operata dal mondo mainstream con il non indifferente apporto della nomenclatura Hollywoodiana, ha solo inasprito lo scontro politico che sempre più spesso si sta conformando come scontro fisico.

Tutti contro Trump, Trump contro tutti. Il film, insomma, sembra essere al posto giusto nel momento giusto, come si suole dire, perché riporta alla memoria una stagione di contestazioni e violenze senza precedenti: manca solo quello sporco Vietnam.

Infatti, la pellicola si apre con la drammatica escalation militare che dal 1965 al 1969, sotto la presidenza del democratico Lyndon B. Johnson, vide gli Stati Uniti incrementare considerevolmente il contingente militare dispiegato nel teatro operativo in sud-est asiatico ed Indocina.

Durante la Presidenza Johnson l’amministrazione statunitense si affidò come giustificazione per l’intensificazione del conflitto e l’invio di forze combattenti sul campo di battaglia al suo ruolo di comandante in capo delle forze armate, in base alla “risoluzione del Golfo del Tonchino“, votata a larghissima maggioranza dal Congresso statunitense, che autorizzava il presidente a prendere le disposizioni ritenute (a sua discrezione) necessarie per proteggere gli interessi statunitensi.

In sostanza, un continuo e sistematico incremento dell’impegno militare ed aeronavale in Vietnam che perdurò ininterrottamente almeno fino al gennaio del ’68, quando con l’offensiva del Tet l’esercito nordvietnamita spezzò l’incrollabile certezza di vittoria americana e causò quella crisi politica interna che portò agli scontri di Chicago e ai primi colloqui di pace con il conseguente arresto dell’escalation.

È in questo contesto che si innesta la storia dei sette attivisti, otto per un breve periodo, che nell’estate del ’68 guidarono la contestazione alla Convention Democratica di Chicago, in Illinois, contro il presidente Johnson e la Guerra. Una contestazione che come noto, finirà in un violento bagno di sangue e con l’incriminazione dei leader della protesta per istigazione alla sommossa, associazione a delinquere e cospirazione. Chi erano?

Imputati al processo furono Abbie HoffmanJerry RubinDavid DellingerTom HaydenRennie DavisJohn Froines e Lee Weiner.

I primi due, studenti di sinistra fondatori dello Youth International Party,soprannominati in seguito yippie, erano anarco-socialisti imbevuti di pacifismo e marijuana. Gli yippie si configuravano come l’ala politica movimentista degli hippy, dal momento che come disse lo stesso Rubin “non tutti gli hippy avevano già sviluppato una posizione politica”.

Gli yippie inscenavano trovate goliardiche, come ad esempio quella di candidare un maiale dal nome Pigasus the Immortal (“Pegaso l’Immortale”, facendo leva sul gioco di parole tra “Pegasus” e “pig”, in inglese “maiale”) alla Presidenza degli Stati Uniti nel 1968, allo scopo di prendersi beffa dell’establishment.

Sebbene lo Youth International Party fosse ben conosciuto per le sue iniziative politiche teatrali, e forse per questo metodo (originale per l’epoca) di polarizzare l’attenzione pubblica, la maggior parte dei tradizionali partiti politici di sinistra americani lo ignorarono o lo avversarono.

Tom Hayden fu uno dei promotori del gruppo di studenti attivisti di sinistra Students for a Democratic Society (SDS) e ne fu presidente dal 1962 al 1963. Durante una protesta in Mississippi fu duramente picchiato, arrestato e incarcerato ad Albany, in Georgia, il giorno del suo ventiduesimo compleanno. Mentre era in carcere iniziò a redigere il manifesto del gruppo SDS, Port Huron Statement (dichiarazione di Port Huron) nel quale rilevava quelli che riteneva i maggiori problemi della società americana, delineando una visione radicale del futuro per il miglioramento della stessa tramite la democrazia partecipativa e la disobbedienza civile; suggeriva il controllo delle armi, la riforma del partito Democratico, con una partecipazione di candidati neri, il perseguimento della pace e dei diritti civili. Nel 1965 visitò per la prima volta i territori di guerra nel Vietnam: trattandosi di un viaggio non autorizzato, fu costantemente tenuto d’occhio dall’FBI.

Ma è in seguito agli scontri di Chicago che il gruppetto, prima marginalizzato e diviso, si trova consacrato da un vero e proprio processo farsa dato in pasto all’opinione pubblica, che da subito lo trasforma in uno scontro “escatologico” tra sistema e contestazione. Inizierà così un processo già scritto, presieduto dal giudice Hoffman (ironica omonimia con uno degli imputati), fatto di intere testimonianze cancellate, inutili obiezioni, una giuria manipolata, oltraggi alla corte come se piovesse, capi d’accusa forzati e imposti dall’alto.

Oltre ai sette, fu arrestato e messo sotto stato d’accusa anche Bobby Seale, afroamericano fondatore e leader del movimento rivoluzionario delle Pantere Nere, che però a Chicago c’era stato solo per quattro ore. All’inizio del processo, Bobby Seale bersagliò ripetutamente di insulti il giudice conservatore Julius Hoffman, che lo fece legare e imbavagliare,per poi ordinare che il suo caso fosse separato dagli altri; Seale fu successivamente condannato a quattro anni di prigione per oltraggio.

Il processo ai Chicago 7 diventa un circo mediatico, un palcoscenico con tanto di pubblico: “Tutto il mondo ci guarda” è lo slogan scandito più volte nel corso del film, quasi come a ricordare il suo impatto sociale e la grande risonanza. Filmati reali in bianco e nero si alternano alle scene del film, mostrandoci fotogrammi di proteste, rivolte finite nel sangue, in un susseguirsi incalzante che è il cuore dell’intera pellicola, in ogni caso mai lenta o stagnante.

Ma quello che più ci interessa del film è che Aaron Sorkin scrive una sceneggiatura focalizzandosi sul vero protagonista: le idee. “Abbiamo portato certe idee oltre i confini dello Stato”, “Non sono mai stato sotto processo per i miei pensieri prima”, “Noi non andiamo in galera per quello che abbiamo fatto, noi andiamo in galera per quello che siamo”. Queste sono soltanto alcune delle battute chiave di Abbie Hoffman (interpretato da Sacha Baron Cohen), che alla domanda su “quale fosse il prezzo per annullare la rivoluzione” risponde “la mia vita”.

Forse idee sciocche, ma sicuramente sincere. Disordinate ma genuine. Sono proprio le idee ad essere allora come oggi, al centro del dibattito. Oggi più di allora sono tutte le idee ad essere messe sotto stato d’accusa da un sistema che, semplicemente, vuole solo consumatori.

Ed è crudele, quasi come sparare sulla croce rossa, constatare che proprio la sinistra alternativa, che un tempo guidava le contestazioni anti-sistema, sia diventata il peggior cane da guardia di qualsivoglia struttura di potere. Dove si è spento il sogno di rivoluzione dei Chicago 7?

Risposta: nella sinistra globalista, liberale, progressista che oggi non contesta mai il Partito Democratico (quello americano) e non si sognerebbe nemmeno lontanamente di arrivare allo scontro fisico o di menar le mani. Quella sinistra che dalla fine del Vietnam ha avvallato ogni guerra americana, ogni destabilizzazione, ultime e non per importanza la Libia, la Siria e l’Armenia.

Insomma, quelli del Nobel per la pace a Barack Obama… Si è spenta in quella sinistra di casa nostra, sempre pronta ad invocare un bigotto ordine di stampo borghese, sempre pronto a chiamare la polizia, sempre pronto a sostenere nuovi DPCM in nome della salute. Almeno una volta della salute non gli fregava nulla, e si sfondavano di sesso, droga e rock ‘n’ roll.

Ormai neanche più il sesso… diventato tabù quanto un dogma cristiano. Questo era il loro sogno? Quando parlavano di diritti civili sognavo l’LGBT? Quando parlavano di diritti delle minoranze sognavano le devastazioni dei Black Lives Matters? Quando si discuteva di ambiente immaginavano i gretini?

Forse si, o forse no. Sarebbe interessante chiederglielo di persona, almeno a quelli ancora in vita. In ogni caso noi siamo quelli che credono nelle idee, che credono che “amore e coraggio non sono soggetti a processo” quindi non possiamo che guardare con interesse e un velo di simpatia ai protagonisti di un film che ci mostra come nessun abuso di potere può intaccare un’idea. Qualsiasi essa sia.

Se al mondo ci fossero più persone disposte a correre qualche rischio per un’idea, forse questo sarebbe un mondo migliore, sicuramente più divertente anche per noi, sicuramente più scomodo per coloro che vogliono l’ordine. Ma non un ordine superiore, bensì l’ordine dell’impiegato. Quell’ordine che per usare le parole del filosofo Albert Caraco, “ha bisogno di produttori e di consumatori, non già di uomini integri, gli uomini integri lo intralciano, a loro esso preferirà sempre gli aborti, i sonnambuli e gli automi…

Il 18 febbraio 1970, i sette imputati restanti furono prosciolti dalle accuse di cospirazione. Cinque di loro, Hoffman, Rubin, Dellinger, Hayden e Davis furono ritenuti colpevoli di avere attraversato il confine dello Stato con finalità di incitamento alla rivolta e furono condannati a cinque anni di carcere e multati per 5000 dollari. Il 21 novembre 1972, le condanne furono ribaltate dalla Corte d’Appello degli Stati Uniti, che ritenne che il giudice Hoffman non avesse tenuto conto dei pregiudizi culturali o razziali di alcuni giurati. Durante il processo, tutti gli imputati e due avvocati della difesa, tra cui il celebre legale William Kunstler, furono accusati di oltraggio alla corte e condannati, ma anche queste sentenze furono annullate.

Sempre nel 1970, Abbie Hoffman (che morirà suicida nel 1989), scrisse un libro destinato a diventare un vero e proprio caso editoriale, tanto che ancora oggi nessuno ha certezza di quante copie siano state vendute. Il titolo è assurdo “Ruba questo libro”, e così fecero in molti…

L’opera è un classico esempio di controcultura yippie dell’epoca e contiene una serie di consigli di sopravvivenza urbana, dal procurarsi gratuitamente cibo, alloggio e vestiti fino all’ organizzazione di azioni dimostrative, dalla coltivazione di marijuana (ovviamente) fino alla produzione artigianale di rudimentali mezzi di offesa e di difesa, passando per la produzione di esplosivi e la guerriglia urbana. Affronta varie tematiche pratiche relative all’organizzazione di propaganda, dalla stampa di volantini alla realizzazione di un’emittente radio libera.

Un libro tutt’ora introvabile, oppure spezzettato in edizioni censurate, che dovrebbe stuzzicare la curiosità di chi legge. A voi trovarlo, ma fino a quel momento ciò che si può certamente consigliare è di rubare questo film e farlo vostro.