di Michele
Di fronte al Monumento ai Caduti di Ancona si ha fin da subito la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di sacro, ma è naturale chiedersi a chi esso sia sacro. Il Monumento, progettato per la sua città natale da Guido Cirilli, fu inaugurato nel 1930, mentre la posa della prima pietra risale al 1923. Com’è facile intuire, i Caduti del monumento sono quelli della Prima Guerra Mondiale. L’aspetto è quello di un tempietto dalla forma circolare. Otto colonne custodiscono l’ara interna, sopra di essa un foro circolare collega l’ara al cielo, cioè alla trascendenza e alla verticalità. Le colonne non potevano che essere d’ordine dorico, sia per la solenne marzialità di questo stile sia per l’origine stessa della città, la quale si vanta di essere di fondazione dorica.
La struttura ha quindi qualcosa di antico, ad alcuni verrebbe da dire pagano. Ma il dio, a cui questo tempietto è consacrato, è il dio della Nazione. Basta guardare le iscrizioni o i fregi. Il fastigio reca i versi di Giacomo Leopardi e della sua All’Italia: “Beatissimi voi, / ch’offriste il petto alle nemiche lance / per amor di costei ch’al Sol vi diede”. L’iscrizione è sormontata da alcuni fasci littori, precisamente otto, come le colonne. Ad ornamento del basamento si trovano gli elmi dei fanti, a ricordo della Prima Guerra Mondiale, e le spade, simbolo per eccellenza d’ogni guerra. Modernità e antichità si intrecciano nel culto della nazione. Culto incarnato nel sacrificio dei fanti al fronte. Culto vivificato dal sangue degli eroi. Culto eternato nella Grande Guerra, come nel lampo di una granata.
Quello del culto della nazione e della religione della patria è uno dei temi ricorrenti di tutto il Risorgimento. L’unità politica dell’Italia presuppone un’unità spirituale che però sembra mancare. Ciò si sintetizza nella celebre frase “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, di solito attribuita a D’Azeglio. In questo senso il Risorgimento rimarrà sempre una rivoluzione incompiuta, incapace di adempiere alla sua missione più alta, quella della rigenerazione morale e spirituale degli italiani. Il Risorgimento ha dato un corpo all’Italia, ma non un’anima. O almeno non un’anima condivisa. Potremmo prendere, come esempio di questa mancanza, Camillo Benso Conte di Cavour. Egli è stato forse il massimo rappresentante di quella classe liberale che ha unificato lo stato italiano sotto i Savoia, senza però la creazione di una religione della patria. La sua morte, alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia, è in questo senso fortemente simbolica.
A “fare gli italiani” sarà la guerra. È abbastanza nota l’interpretazione della Prima Guerra Mondiale come quarta e ultima guerra d’indipendenza italiana. Interpretazione che instaura un legame diretto fra Risorgimento e Grande Guerra. Quest’ultima non sarebbe il compimento del processo risorgimentale soltanto da un punto di vista politico e territoriale. La liberazione delle terre irredente fu un fatto importantissimo, ma non è l’unico degno di nota. Il merito più grande della guerra fu quello di saldare nel fuoco l’unità spirituale degli italiani, di dar loro un’identità e un carattere. Lo sforzo bellico, le prove durissime del fronte, diedero vita ad un sentimento nazionale diffuso. Nelle trincee gli italiani impararono a conoscersi l’un l’altro e a conoscere sé stessi, al di là delle divisioni di classe e di quelle regionalistiche. Alla guerra riesce quel processo di sacralizzazione della politica e nazionalizzazione delle masse che il Risorgimento aveva fallito. Il culto della nazione e la religione della patria si impongono finalmente nella coscienza dei più
Soffermiamoci su questa idea della guerra che crea qualcosa di sacro. Tralasciamo per un momento l’idea della guerra come ascesi e via di realizzazione del sé. Concentriamoci invece sull’immagine della trincea, ma osserviamola da un’angolatura insolita: scavare una trincea significa tracciare un solco. In altre parole, è l’essenza dell’atto fondativo, è lo stesso gesto di Romolo nel rito di fondazione di Roma. È la creazione di un confine, di una linea invalicabile, di una legge. È il cosmo che ordina il caos. È la volontà che plasma la materia. Allo stesso modo un tempio non è altro che uno spazio sacro, il quale viene delimitato e separato da ciò che è profano. Attraverso l’atto di tracciare un solco si crea una spazialità diversa, cioè divina. Ma la trincea non è semplicemente una linea che chiude uno spazio, una linea rivolta all’indietro. Al contrario, la direzione della trincea è quella dell’assalto. “Il confine può spostarsi solo in avanti”, così era per gli antichi romani che assegnavano a tale idea di confine anche un dio: Terminus, così era per i soldati della Prima Guerra Mondiale, così dovrebbe essere anche per noi.
La guerra ha anche una dimensione interiore. Potremmo dire della trincea quello che Marinetti scrive come preambolo del Manifesto del Futurismo, quando finisce in una buca dopo essere andato fuoristrada: “oh! Materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese… Quando mi solleva – cencio sozzo e puzzolente – di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia!”. Il contatto con la terra, con la guerra, scatena energie elementari che disvelano l’Essere. La realtà viene conosciuta in una sostanza più profonda, lontana dai limiti e dalle idiosincrasie di un’esistenza borghese. La guerra da simbolo di morte diventa esperienza di resurrezione. Resurrezione che, come abbiamo visto, è resurrezione al tempo stesso nazionale e individuale, politica e sacrale.
Ma torniamo al nostro Monumento e facciamolo calcando le stesse vie di Ancona, passando per Corso Garibaldi e Piazza Cavour, ovvero attraverso il Risorgimento e le sue contraddizioni, arriviamo a Largo XXIV Maggio, a ricordare il giorno in cui l’Italia entrò in guerra e la marina austrica cannoneggiò la costa adriatica, causando 63 vittime tra gli anconetani, camminiamo per tutto il Viale della Vittoria e giungiamo infine a Piazza IV novembre, là dove sorge il Monumento ai Caduti e si staglia al mare. In questo modo le vie della città ci racconteranno il percorso ideale che porta dal Risorgimento alla Grande Guerra, quindi alla Vittoria. Qui facciamo parlare il Monumento stesso, facciamo riecheggiare le parole che vi sono scritte nella pietra, nella pergamena vergata da Giuseppe Andreoli: “Dal sangue degli eroi sorsero nei secoli le opere che più altamente affermano la nobiltà dello spirito umano. Dal sangue purissimo e generoso dei figli che prima d’ogni altra città Ancona diede alla grande guerra redentrice, sorga perenne il monumento che sta a simbolo d’amore agli Italiani – Fiero ed austero ammonimento agli stranieri. 11 marzo 1925”.
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