Di Bianca

L’essere madri è diventata una scelta più che rara, coraggiosa. In Italia il numero dei nuovi nati è crollato vertiginosamente negli ultimi anni, tanto che all’emergenza Covid si può affiancare (purtroppo) l’emergenza delle nascite. Si è registrato un calo dell’1,5% rispetto al 2019 e le prospettive sono tutt’altro che rassicuranti. Lo sono almeno per una fascia molto ristretta per la popolazione, perché parlando tanto di diritti sociali si esclude il primo e più importante per la struttura costitutiva della società: quello della famiglia e, di conseguenza, della maternità.

Come si è già visto, le priorità di questo governo durante l’emergenza sono state ben altre; nessuna delle quali, tra l’altro, volta a sostenere le figure sociali e i cittadini più colpiti dalla pandemia. O, se l’intenzione c’era, si era rivelata inadatta o insufficiente (ricordiamo i 600 euro decantati come manna dal cielo per i lavoratori durante il lockdown, e che ben pochi hanno visto). I dati preoccupanti sul numero delle nascite, però, sono una problematica che interessa da tempo la nostra Nazione: in primis concorrono le difficoltà del creare una famiglia, dove la casa e le necessità che seguono alla nascita del bambino sono solo i principali costi da affrontare. Si aggiunge inoltre una retorica che negli ultimi anni ha elevato l’ideale della donna “moderna”: senza figli, indipendente, realizzata sul lavoro, libera da responsabilità e, ovviamente, da un uomo che l’aspetta a casa. Considerando infine i ritmi lavorativi da mantenere e la retribuzione che segue, chi ha il tempo, l’intenzione e i mezzi per diventare madre?

Al di là, si ripete, della mera incompetenza di chi governa, da cui deriva la discutibilità di certe “priorità”, l’aspetto più preoccupante della questione riguarda la sistematica decostruzione della maternità stessa, del sentimento che unisce una madre al figlio, sangue del suo sangue: un sentimento infinito, immutabile e ancestrale; un legame puro e ineguagliabile, di un amore unico nel suo genere e che è esistito nelle migliaia e migliaia di generazioni che hanno attraversato questa terra e scritto la sua storia.

Oggi viene invece demonizzato come l’affermazione più diretta e compiuta della solita, eterna sottomissione della donna all’uomo; anzi, alla società intera, che, come ben sappiamo, si crogiola volentieri nel sapere una donna costretta dai dolori e dalle responsabilità della gravidanza, rinchiusa in casa in modo che non possa far valere i suoi diritti nella pubblica piazza. In poche parole, secondo le femministe, che si avvalgono di questa teoria nel giustificare la loro guerra al maschio, la maternità non sarebbe altro che la gabbia comoda, efficace e facilmente accessibile in cui relegare una donna e in cui quest’ultima deve umilmente riconoscere i limiti della sua realizzazione.

Ma perché mai le nostre eroine dovrebbero fuggire da qualcosa di così naturale e amorevole come la maternità?

È presto detto: dare alla luce un figlio comporta l’esperienza più alta di affinità fra uomo e donna, la realizzazione definitiva del vincolo che separa e unisce i due sessi. È l’incontro e la condivisione assoluta dei due esseri che opposti ma complementari generano la vita, e questo è possibile grazie unicamente alle loro differenze. Non esiste predominio perché la diversità fra uomo e donna non implica superiorità o inferiorità nella genitorialità, come in nessun altro campo relazionale dei due sessi.

Ed è proprio questo che le femministe non riescono (o non vogliono) capire: non sono in grado di concepire un rapporto uomo-donna in cui l’una non è paragonata né paragonabile all’altro, in cui il ruolo di uno non dipende dalle mancanze dell’altra e viceversa. Non sono in grado di inserire le diversità dei due sessi in un contesto che prevede un equilibrio di diritti, sì, ma anche e soprattutto di doveri. Finiscono quindi per negare queste diversità o stravolgerle del tutto.

Quindi la convinzione delle ideologie del girls power che la donna venga vista dalla parti avverse come un’incubatrice vivente è in realtà marginale al loro conflitto contro la maternità. Come detto sopra, la ragione è assai più complessa, anche se finisce comunque per vedere la gravidanza come un totale asservimento della donna all’uomo e/o alla società. Come se il desiderio di avere un figlio come atto d’amore e di concretizzazione del rapporto fosse una prerogativa femminile, e invece gli uomini desiderino una famiglia solo per compiacere ai loro disprezzabili istinti patriarcali.

Un’ulteriore causa di tanto odio risiede nel valore del sacrificio, che già di per sé viene incriminato nella società odierna e ridotto al mero e futile concetto di perdita. Non è necessario ricordare che il parto consiste nell’esperienza di vita più dolorosa e rischiosa a cui mediamente va incontro una donna. Esso rappresenta appieno le ragioni del sacrificio: dal dolore, dallo sforzo e dalla tenacia deriva quella che generalmente è un’elevazione spirituale, ma che in questo caso è il futuro stesso. Questo ovviamente da non estremizzare, nel senso cristiano, nel fatto che la donna debba doverosamente patire atroci sofferenze per diventare madre perché il suo sforzo sia giustificato. Eppure, sotto questa ottica, si può dire che dare la luce a un figlio rimane uno dei gli ultimi esempi di sacrificio diffusi nella società, che nemmeno la tecnica, per ora, è riuscita a vincere, nonostante quello che si sta diventando con le banche del seme e l’inseminazione artificiale.

Un altro tormentone delle nostre fidatissime è il “non sei donna, non puoi esprimerti”. Il famoso “no uterus, no opinion” che tanti commossi consensi ha riscontrato a livello internazionale. L’iniziativa, a detta delle sue infervorate sostenitrici, sarebbe nata marginalmente al campo di decisione dell’aborto, seguendo il trito filone alla “io sono mia” e “mio il corpo, mia la decisione”; ma che, in realtà, è finita per escludere del tutto la figura maschile su una qualsiasi decisione riguardante il feto, che, ricordiamo, può spaziare oltre alla sola interruzione della gravidanza.

Un divieto all’uomo di esprimersi studiato per colpire in pieno la dualità armonica dei due sessi analizzata in precedenza. Quando invece la questione si risolve da sé nella semplice evidenza dei fatti: un figlio si fa in due, in due si decide. Vale a dire, l’uomo ha lo stesso diritto della donna di esprimersi sulla gravidanza. Anche perché, purtroppo per le abortiste, un futuro padre ha più ragioni di intervenire sul futuro di suo figlio più di qualsiasi battagliera libertina sui social, totalmente estranea alla situazione. L’essere donna non conferisce in nessun modo la possibilità di infierire qual si voglia su qualsiasi tematica che riguardi un individuo di sesso femminile, figurarsi il privilegio di sostituire la figura paterna. Di certo si deve riconoscere un certo peso della decisione della donna, dal momento che lei per prima deve affrontare il percorso della gravidanza: questo tuttavia non la legittima a isolare l’uomo nella scelta.

Abbandonata dallo Stato, dimenticata durante la pandemia per l’affidamento dei figli e non riconosciuta come agente determinante nella costruzione del nostro avvenire, la figura della madre è ora inevitabilmente in declino, distrutta dal mancato sostegno del governo e da una visione femminista ed egoistica del mondo. Serve ricostruire un rapporto fra uomo e donna che permetta la giusta e forte generazione della vita, e serve ribadire l’importanza delle madri nel futuro della nostra Nazione. Prima che diventi irraggiungibile, prima che sia troppo tardi.