Di Marco

<<Lo sai, oggi stiamo per andare in una gabbia di matti […] A ogni modo, Jackie, se qualcuno vuole spararmi con un fucile dalla finestra, nessuno può impedirlo, quindi perché preoccuparsene?>>

Queste sono le parole “profetiche” pronunciate il 22 novembre 1963 dal Presidente degli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy, alla moglie Jacqueline, dopo la lettura dell’annuncio listato di nero comparso sul “Dallas Morning News”. Sul giornale si leggono le seguenti parole:

<<Benvenuto, Sig. Kennedy, a Dallas […]. Perché affermi che abbiamo costruito un muro di libertà intorno a Cuba, quando non c’è libertà a Cuba oggi? Perché grazie alla tua politica, migliaia di cubani sono stati imprigionati […] l’intera popolazione di 7.000.000 di cubani stanno vivendo in schiavitù […]. Perché hai demolito la dottrina Monroe a favore dello “Spirito di Mosca”?>>

Questa fu l’accoglienza che Dallas riservò a John Fitzgerald Kennedy, ufficialmente presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio del 1961, che si trovava nelle metropoli texana in visita ufficiale per inaugurare e tenere discorsi presso università e istituzioni pubbliche; raccogliere fondi per il proprio partito e rimettere in moto la campagna elettorale, per le rielezioni del 1964. La vita del più giovane presidente della storia americana sarebbe stata stroncata alle 12:30, dello stesso venerdì 22 novembre 1963, nella Dealey Plaza di Dallas, dove alcuni proiettili calibro 6.5 mm. colpirono la Lincoln Continental del 1961 che trasportava il presidente degli Stati Uniti d’America.

L’omicidio di JFK lasciò un paese straziato per la perdita di una delle figure più amate e controverse, di quel movimentato decennio che erano gli anni Sessanta, ma allo stesso tempo trascinò con sé molti dubbi sui mandanti e sui possibili esecutori materiali del suo assassinio. Bob Dylan, nel suo celebre brano “Murder most foul”, cantava così:

<<Il giorno il in cui hanno fatto saltare il cervello al Re migliaia guardavano, nessuno vide nulla […] la più grande magia mai vista, un’esecuzione perfetta, un lavoro da manuale>>.

Ancora molti sono, come già detto, gli interrogativi sul suo assassinio che a distanza di Cinquantasette anni suscitano molte congetture. I dubbi probabilmente potranno essere sciolti, quando il 26 ottobre 2021 avverrà la declassificazione di tutti di documenti sul suo omicidio, che erano stati secretati per motivi di sicurezza nazionale.

Ma quello che comunque resta è che JFK è stato uno dei protagonisti indiscussi dei primi anni Sessanta (e non solo). Divenne un Eroe di guerra, quando il 2 agosto 1943, salvò Dieci suoi commilitoni che erano finiti in mare, in seguito all’affondamento, per mano di una schiera di cacciatorpediniere giapponesi, del PT 109 comandato dallo stesso Kennedy.

Salì alla presidenza degli Stati Uniti d’America in un uno dei periodi più incandescenti dello scontro con l’Unione Sovietica, in quel conflitto che è passato alla storia come “Guerra Fredda”. Durante la sua presidenza, Kennedy ha dovuto affrontare una serie di questioni importanti: lo sbarco alla Baia dei Porci, la crisi dei missili di Cuba, il movimento dei diritti civili degli afroamericani e la corsa allo spazio. Tutte queste tematiche impegnarono i mesi della breve presidenza di JFK, che vedeva davanti a sé una società sempre più divisa per la questione dei diritti civili degli afroamericani e scontenta per l’impegno statunitense nel Vietnam.

Ma a Cinquantasette anni dalla sua uccisione, è interessante ripercorre e analizzare la questione su cui, più di tutte le altre, Kennedy si impegnò e che ebbe, allo stesso momento, le maggiori conseguenze sulla politica americana degli anni successivi: la corsa allo spazio.

In un discorso storico che espose circa un anno prima della sua morte, in quello stesso Texas che poi avrebbe dovuto abbandonare a bordo dell’Air Force One in una bara di bronzo, John Fitzgerald Kennedy annunciava la volontà di spingere la ricerca spaziale americana sulla traiettoria lunare e il suo impegno di far sbarcare al più presto equipaggi umani, ovviamente americani sul satellite naturale, per farli tornare sani e salvi sulla Terra.

Uno dei passi più famosi del suo discorso, tenuto presso la Rise University, è il seguente:

<<Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese; non perché sono semplici, ma perché sono ardite, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità>>.

Il proposito, dunque, era chiaro: gli Stati Uniti non potevano restare indietro all’Unione Sovietica nella progettazione di materiale spaziale e gli americani dovevano essere i primi esseri umani a poggiare i loro scarponi sul nostro satellite. Per portare avanti la sua “sfida alle stelle”, JFK aveva bisogno di figure competenti e altamente preparate, in grado di sostenere il suo grandioso progetto. Kennedy trovò quello che cercava in molte delle università italiane, dove si allevava una classe di studenti in grado di partecipare alla corsa spaziale, a quei tempi dominio essenzialmente delle due uniche superpotenze mondiali, allineandosi agli standard internazionali e alla ricerca più avanzata.

Gli Stati Uniti seppero cogliere l’occasione del contributo scientifico proposto dall’Università di Roma La Sapienza e così, con i lanciatori Scout offerti dall’US Air Force e due piattaforme petrolifere adattate a base di lancio, ancorate al largo della costa di Malindi (Kenya), si aprì una collaborazione tra Italia e Stati Uniti siglata il 7 settembre 1962 da Lyndon Johnson e dal ministro degli esteri italiano Attilio Piccioni alla Farnesina, sede della diplomazia italiana.

Si può, dunque, dire che la corsa allo spazio inaugurata da Kennedy e il conseguente primato statunitense, ottenuto nel corso degli anni, nel campo spaziale parlano anche un po’ italiano.