Di Clara

Johnny Cash non fu di certo un santo, ma questo non sminuisce il suo peso su questo pianeta, soprattutto nella musica country (e non solo). The Man in Black veniva chiamato, poiché si vestiva sempre con quest’unico colore, in antitesi con le mode dei suoi colleghi contemporanei. Un uomo diverso dagli altri, con un in famiglia che lo segnò profondamente e che lo condusse alla dipendenza.

Il 1968 fu un anno fruttifero per il cantante, con la pubblicazione dell’album “At Folsom prison”, un disco registrato direttamente dal carcere di massima sicurezza il 13 gennaio. Il primo brano, “Folsom prison blues”, decise di dedicarlo direttamente ai detenuti perché “c’è sempre malinconia dietro le sbarre e tutti hanno un blues da piangere”. In realtà, la canzone già era stata pubblicata nel 1955, e il successo non tardò ad arrivare: nel 1956 fu nella classifica dei 5 migliori singoli, per poi presentarsi di nuovo all’appuntamento al vertice ben 13 anni dopo.

Si racconta che il giorno precedente all’esibizione il cappellano del carcere gli aveva consegnato una cassetta dal titolo “Greystone Chapel”: era la una canzone scritta da un detenuto di Folsom, chiamato Glen Sherley. Quest’ultimo era un fan di Cash e il cantante, insieme ai suoi accompagnatori, impararono il brano e lo suonarono il giorno del concerto, finendo l’esibizione in lacrime. Sicuramente anche quei duemila spettatori, fermi al proprio posto poiché circondati guardie armate, avranno tenuto per sempre un ricordo di quella giornata, alleviata per due ore dalla chitarra di un pilastro della musica.

Fu un’occasione dove, per sua stessa ammissione, si sentì a proprio agio, essendo anch’esso un ribelle per natura. Di bravate ne commise parecchie, rischiando a volte guai pesanti. Il culmine della sua disperazione lo toccò l’anno prima della sua esibizione a Folsom, con un tentato suicidio, affermando che “volevo allontanarmi da me stesso”. Poco tempo dopo, però, ritrovò la luce, ritrovò sé stesso: non era uno sconfitto come volevano farlo apparire. E questa sua (nuova) condizione voleva rivelarla anche agli altri, ai suoi simili, ai trasgressivi (nel bene o nel male), come lui indubbiamente fu.

Sentiva la necessità di arrivare ad accarezzare, con la sua musica, quei volti tristi e rassegnati: il suo album è infatti pieno di disperazione e solitudine, ma che sprona al cambiamento e alla rinascita. Tutti ciò di cui lui parla, non lo racconta solamente da narratore, ma da protagonista e da complice con quel pubblico.

Nella sua autobiografia rivela: «Mi trovavo nel mio ambiente naturale, come uno scarafaggio nella stanza di un motel. Mi ha sempre fatto ridere il fatto che a fare crescere la mia credibilità d’artista, al punto tale che la ABC abbia pensato di propormi di condurre uno show settimanale in televisione, sia stato quel concerto in cui io e i prigionieri ci siamo trovati uno accanto all’altro, outsider, ribelli e fuorilegge».

Un emarginato, anche di fronte agli stessi colleghi, i quali erano soliti parlare solo di amore e, pian piano, s’immettevano nel tema della ribellione. Diverso era colui che iniziava tutti i concerti con il saluto “Hello, I’m Johnny Cash”, decise di insorgere anche contro le esibizioni tradizionali.

Con “At Folsom Prison”, il cantante diventò un simbolo di estremismo, nel vero senso della parola: rappresentava persone ai margini, della società, e in generale della vita. Chissà se nel 2020, a più di mezzo secolo di distanza, il disco verrebbe apprezzato allo stesso modo, oppure verrebbe superficialmente criticato da buonisti pronti a giudicare l’uomo prima della sua arte. Noi, ovviamente, staremmo dalla parte dell’”uomo in nero”.