Di Michele

Il futurismo ha da tempo passato il secolo di età. Ci si potrebbe chiedere cosa rimane di quella scintilla, di quella fiammata che incendiò l’Italia e il mondo, quel che è vivo e quel che è morto. Si percepisce sempre una sorta di contraddizione a parlare di futurismo, quando i futuristi stessi disprezzavano il lambiccarsi il cervello con il culto delle cose passate: “volete dunque sprecare tutte le forze migliore, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti”.

Come molti dei migliori maestri del ‘novecento, anche per i futuristi non c’è modo peggiore per tradirli che prenderli troppo sul serio. L’unica cosa seria da fare con loro è ridere, al modo di Palazzeschi, per cui “l’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride”. E per ridere di gusto bisogna staccare a morsi la serpe nera che ci soffoca, passare quegli abissi bui che ci spaventano: “l’uomo che attraverserà coraggiosamente il dolore umano godrà dello spettacolo divino del suo Dio”. Dove si ride lì e la vita. L’insensatezza dell’esistere, il vuoto pessimismo, l’enigma della sofferenza, vengono messi da parte da un gesto violento e al tempo stesso leggero, quasi una granata che volteggia nell’aria mentre disegna un’ellittica. In trincea si va all’assalto cantando e ridendo, come una ciurma di pirati o una squadra su un autocarro. Ecco la pienezza della vita che trasborda. Più la prova è dura e meglio sarà, perché “maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo”.

Non stupisce quindi la totale incomprensione del futurismo da parte di molti suoi studiosi. Se i futuristi proclamavano: “noi vogliamo rientrare nella vita”, li si tradirebbe a trattare il futurismo come cosa morta. Ma proprio questo è il modo in cui di solito viene inteso. Così il futurismo viene ricordato per lo più per i suoi aspetti scandalistici, per le sue fantasticherie, per le sue invenzioni, insomma per tutto ciò che provoca e provocava qualche prurito al pubblico più vasto che ci sia: quello degli imbecilli. Insomma, gli annoiati che vogliono un brividino di passione su cui discutere in una specie di coito della banalità. Per dirne uno, Giordano Bruno Guerri – il cui compito intellettuale sembra limitarsi a quello di chiedere scusi, ma lei è fascista? –nel dedicare una biografia a Marinetti lo descrive come un velleitario, fino a recargli un’offesa tale che, fosse Marinetti ancora vivo, gli sarebbe costata un duello: “il futurismo non ha lasciato opere letterarie indimenticabili”. Guerri cerca di salvarsi asserendo che “alcuni manifesti sono capolavori”, ma in questo modo dimostra di aver avuto attenzione solo per gli aspetti più caduchi del futurismo.

Basterebbero Mafarka il futurista di Marinetti o Il codice di Perelà di Palazzeschi a smentire le banalità di Guerri. Il primo è l’affresco policromo del nietzschiano uomo al tramonto che nella sua ascesi eroica fonda una religione del coraggio e crea il superuomo. Il tutto in una terra d’Africa esotica e archetipica dove si mescolano Omero e le macchine. Un’opera esaltante che Marinetti scrive in una lingua violenta, elastica, immaginifica ed esplosiva: “io ho ucciso l’amore, sostituendogli la sublime voluttà dell’eroismo!”.

Il secondo ne è il perfetto contraltare. Allo stesso modo del Mafarka, racconta di un’ascesi spirituale. È la storia di un uomo fatto di fumo che finalmente riesce a librarsi nel cielo: “io sono… molto leggero”. La lingua di Palazzaschi si tiene in bilico tra l’ermetismo e l’allegorico, tra il poetico e l’umoristico. Le catene del mondo si sfaldano nel ridicolo, la mediocrità e la cattiveria della gran massa degli uomini fanno una figuraccia. Solo la leggerezza di Perelà si salva, come un fuoco che diviene fumo e lascia dietro di sé cenere.

Ad ogni modo, l’incomprensione e la morbosità scandalistica che il futurismo ha generato nel tempo, contribuiscono al suo fascino. Qui sta la sua beffa. La grancassa degli imbecilli, dei semicolti, dei borghesucci, ha comunque permesso al futurismo una certa notorietà. Almeno quel tanto che basta per farlo giungere anche a qualche orecchio buono. Ma dietro questa crosta, questo segno dei tempi, qual è il nucleo più intimo del futurismo? L’esempio dei due romanzi che abbiamo citato potrebbe già darci una risposta: l’ascesi eroica o spirituale, che poi è lo stesso. Il futurismo è quindi una specie di indiamento, un superarsi per giungere ad una maggiore pienezza della vita. È il cammino di una morale aristocratica che “germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi”. È gesto liberatorio, creazione per sovrabbondanza, gioco divino (līlā). È disprezzo verso tutto ciò che è basso, mediocre, infiacchito. Questa somma di “tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacco” che è il futurismo, non può essere ridotto a forme fisse, poiché è l’eterna conquista di ciò che deve ancora essere. Futurista è il piacere di chi per primo si getta all’assalto e con noncuranza si guarda indietro. Allora il futurismo non ci osserva dai secoli come meta irraggiungibile, come un culmine insuperabile. Piuttosto è uno stimolo a far crescere la fiamma, ad andare più avanti ancora, a vivere il proprio tempo. Perciò, come si dice dei re quando muoiono, il futurismo è morto! Viva il futurismo!