Di Moro

Uno dei motivi per i quali la nostra civiltà sta passando il periodo più buio della sua storia, è indubbiamente l’ignoranza circa la sua genesi. A molti non interessa di tempi così lontani, altri ne hanno un’idea parziale, figlia dell’idealismo e delle religioni. Complici in egual misura progressisti e conservatori, l’occidente non vede più la sua origine e questa mancanza gli sta costando la sua stessa esistenza. Dove andrà a finire chi non sa da dove è partito? La risposta a questa domanda è davanti ai nostri occhi.

Occorre quindi narrare i natali della nostra civiltà. Questa è figlia di un processo lunghissimo che parte cinque millenni prima di Cristo, nelle steppe comprese tra l’Ucraina e il mar Caspio: nell’Urheimat – come viene nominata dagli antropologi – dell’antico popolo proto-indoeuropeo. A lungo si è discusso circa la natura di queste genti, anche se la maggior parte degli studi concordano sul fatto che questi fossero una popolazione sostanzialmente guerriera. Bande di conquistatori, ma anche di esploratori, con una cultura che il buon vecchio Friedrich Nietzsche definirebbe aristocratica.

È proprio il filosofo tedesco che spiega al meglio la cultura tipicamente indoeuropea. Nella sua “Genealogia della Morale”, ad esempio, ci spiega come questa antichissima visione del mondo fosse sostanzialmente forte e audace perché basata sull’affermazione dell’Io. Il profondo senso dell’onore proprio di ogni individuo fa trasparire quell’atteggiamento tipicamente europeo che vede il singolo alla continua ricerca di qualcosa di nuovo da conquistare.

Da qui si giunge ad Omero e al vero e proprio atto fondativo della civiltà Europea: l’Iliade. Il vero confine tra la sopravvivenza e la morte della nostra civiltà è un campo di battaglia: quello che vede confrontarsi la virtù omerica contro la morale socratica. L’Europa è infatti figlia della visione del mondo iliadica, la quale è la diretta continuatrice della morale antico-indoeuropea. La tragica narrazione delle virtù e dei vizi di eroi e Dei è pane quotidiano per la mitologia europea, la quale discende direttamente dal pantheon proto-indoeuropeo.

Una visione quindi tanto ancestrale quanto audace, che non poteva che essere ripudiata dal “metafisicamente corretto” di autori come Platone, il quale, nel suo nauseante idealismo, voleva sopprimere Omero. Dopo Socrate, infatti, la cultura europea si è popolata di filosofi che disprezzavano il forte pathos tragico e aristocratico greco, basti vedere tra i più noti Kant o Hegel, per non menzionare poi Marx.

Si è giunti quindi al contrario dell’Essere europeo: l’esistenza terrena subordinata alla metafisica e alla morale, uguaglianza totale degli individui, debolezza e compassione portati al grado di valori universali. Certo oggi sembra paradossale dire che la società è “morale” e “metafisica”, se non fosse che entrambe si possono interpretare benissimo come “politicamente corretto” e “progresso”, ovvero concetti altrettanto dogmatici e velenosi.

Contro il fatalismo delle masse, è quindi necessario, innanzitutto, prendere come dato di fatto che la nostra civiltà non è figlia di un sacro ordine morale, ma della virtù e della volontà. La concezione del mondo di Omero, colui che ha “battezzato” la civiltà occidentale si rileva ancora oggi essere la più autentica. Questo perché la natura indoeuropea – dal subcontinente indiano all’Italia, passando per la Persia – durante la storia si è sempre rilevata essere profondamente dedita all’assalto delle cime più alte.

Uno spirito che muoveva le antiche orde indoeuropee, ma anche nobili italiani del rinascimento, i guerrieri micenei, ma anche gli squadristi all’assalto di un’idea. Quanta differenza con questo mondo de-europizzato, dove l’assalto più nobile che si possa pensare è quello di Netflix ai presunti stereotipi.