Di Sergio

Fede, Patria, Rivoluzione. Un trinomio essenziale in cui si sintetizza la vita e la morte di Qassem Soleimani, una vita all’insegna della guerra, una morte all’insegna del martirio. È passato soltanto un anno dal 3 gennaio 2020: un anno nefasto, trecentosessantacinque giorni di macabre danze, che si sono aperte proprio con la notizia dell’assassinio del generale iraniano. Un anno di pandemia, quarantena, miseria materiale e soprattutto miseria umana.

Un anno “schifoso” – come l’ha definito Marcello Veneziani in un recente articolo – “Schifoso perché barattammo la libertà con la sanità, il lavoro con la salute, la comunità con l’immunità, la dignità con la sopravvivenza, la famiglia con l’incolumità, i diritti con la protezione, la salvezza con la pubblica sicurezza. Abbiamo barattato persino la salute mentale con la tutela della salute fisica. Osceni baratti che ci hanno resi più infelici, più miserabili, più asserviti, più impauriti e più depressi pur di salvarci la pelle”.

Un anno in cui l’Occidente ha scoperto il velo di Maya è ha reso manifesta la sua schizofrenia, la sua reale decadenza di valori politici e religiosi in una poltiglia morale senza speranza. Se fino a poco tempo fa la Democrazia era il feticcio del valore assoluto, ora è la democrazia che divora sé stessa in un turbinio di ipocrisie, ipocondrie, infamia istituzionalizzata, delazione a domicilio e viltà d’animo che assurgono a modello per il nuovo cittadino post-covid.

La speranza non arriva dalla Carta Costituzionale: è solo un pezzo di carta senza valore, buono solo ad essere sbandierato al posto del vessillo bianco della resa. Perché non c’è niente a sorreggerla, nessuna autorità che sia qualcosa che stia un po’ più su… un po’ più in là, qualcosa per cui valga la pena morire.

Non ci sorprende quindi che un anno così terribile sia stato propiziato dalla morte del generale Soleimani, quasi fosse stata una ritorsione divina contro l’assassinio del militare iraniano, quasi come se la morte di un uomo giusto sia stato troppo anche per Dio. Come se il nostro anno di quarantena fosse stato il contrappasso per una morte giunta dall’alto, da un drone inanimato che toglie al combattimento qualsiasi valore eroico, un “nemico invisibile”: termine che ben si adatta ad un virus microscopico quanto ad un drone d’attacco dell’aviazione statunitense. Un nemico che non si batte a viso aperto, una guerra senza guerra, una guerra che oggi –  comescrive James Hillman nel suo Un terribile amore per la guerraè una devastante operazione high-tec eseguita da tecnici specializzati con un tocco delle dita. La guerra di Apollo, ‘lungisaettante’ come lo chiama Esiodo, colui che colpisce da grande distanza con le sue frecce che solcano il cielo. Le armi lontano dal fronte, il fronte stesso dissolto, mentre la guerra si trasferisce in cielo, sui satelliti, nello spazio. Laddove le guerre di Marte oppongono esercito a esercito su campi di battaglia fuori le mura e riconoscono le ‘città aperte’, da non attaccare, lo stile apollineo porta la guerra dentro la città, contro i civili, contro la civiltà”.

L’Occidente non colpisce più con le armi della vicinanza, vuoi perché vile, vuoi perché arrogante della sua superiorità tecnologica, ma muove i suoi attacchi come una grossa offensiva totale, che mira al dissolvimento non degli eserciti ma delle civiltà, delle nazioni indipendenti, delle isole di resistenza all’omologazione dei costumi, delle sovranità politiche e della ben più importante sovranità individuale. Ed è beffardo constatare quando il coronavirus sia stato proprio un nemico che allontana, isola, dissolve la vicinanza ed attacca in maniera totale la nostra esistenza.

Qassem Soleimani non era tra i “professionisti”, o i “tecnici”, della guerra. Non stava alla cloche di un videogioco, non spostava pedine dalla sua sala di controllo al sicuro da qualsiasi pericolo… era un combattente, di quelli veri, di quelli che l’Europa non vede dal secondo dopoguerra. Un uomo della prima linea e della scuola sul campo: pasdaran (guardiano della rivoluzione) già dal 1980, fu impegnato in tutte le operazioni militari sul fronte di quella “guerra imposta” che fu il conflitto Iran-Iraq.

Per il generale, che appena arruolato ebbe un addestramento di soli 45 giorni, il fronte era luogo di apprendimento migliore di qualsiasi scuola, migliore di qualsiasi università, migliore di qualsiasi seminario. L’uomo nuovo della Rivoluzione Islamica doveva formarsi al fronte, luogo capace secondo lui di dar vita a quell’aristocrazia dello spirito e del sangue che avrebbe dovuto guidare la futura società iraniana: solo i migliori, solo i forti, solo coloro che credono.

Come non pensare a quella trincerocrazia di Mussoliniana memoria? L’esempio guida, perché come diceva lo stesso Soleimani “La differenza tra noi e gli eserciti classici risiede nelle parole ‘vieni’ e ‘vai’: i nostri comandanti erano sempre avanti e ci dicevano ‘vieni’, laddove un comandante classico rimane indietro e dice ‘vai’.” Una differenza sostanziale ed esistenziale tra gli esseri (come direbbe Evola), quella differenza che è nemica mortale dell’indifferenza, dell’indifferenziazione al ribasso degli uomini, del tirare a campare, della catena di montaggio, di chi “non vuole elevare il livello degli esseri umani perché li temono”.

Uomini politici e di fede? Per carità, un fedele non può essere un politico ed un politico non può essere un fedele, così ci insegnano tutti i giorni i satrapi del pensiero unico per ammonirci e screditare chi crede in qualcosa. Il credo è nemico della razionalità, della nazionalità, della legge. L’epoca delle ideologie ci ha condotto alla guerra, ben vengano gli algidi tecnici della finanza apolide. Ecco perché c’era bisogno di sporcarsi le mani del sangue di Soleimani: perché l’uomo integrale, colto ed elevato, santo e politico, può influenzare un popolo e la società in modo da distruggere quei troni del potere che in Europa sono stati eretti sulle macerie di una guerra persa, in modo che non si potesse più nemmeno provare a pensare di poter sfidare il mondo. Se l’uomo politico spaventa, spaventa di più l’uomo di spirito: ma che succede se queste due qualità collimano, se si sublimano in una vera e propria Rivoluzione di Dio? Ecco che “il tempio è sacro perché non è in vendita”, ecco la rivoluzione che “non ciancia di diritti ma evoca gli Dei”.

Nel 2000 l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran, nomina Qassem Soleimani comandante delle Forze Qods, un corpo speciale dei guardiani della rivoluzione che si occupa di operazioni fuori confine nell’interesse della Rivoluzione Islamica. Con lui al comando vengono rafforzate le milizie di Hezbollah e i gruppi di resistenza palestinese in funzione anti-israeliana che portarono alla vittoria palestinese nella cosiddetta guerra dei ventidue giorni.

Troviamo il generale sciita al fianco della Siria di Assad nella lotta contro l’Isis, il Califfato wahabita che come una marea nera montata dall’estero ha fatto sprofondare il vicino Oriente nel caos. È proprio a Damasco che Haj Qasem incontra il presidente Assad, quando la città è circondata e sembrano mancare ore, se non minuti, alla caduta definitiva della città. “Tutti tornavano in Iran, ma uno era appena arrivato”. Mentre tutti i media occidentali continuavano a dichiarare che Damasco era prossima alla caduta definitiva, Soleimani, Assad e tutta la famiglia rimangono al proprio posto. Sempre lui favorisce l’avvicinamento di Mosca alla questione siriana e sempre lui si impegna in prima persona nella lotta al terrorismo dell’Isis, come fosse il nemico numero uno degli islamici di ogni credo, con la consapevolezza di combattere per l’indipendenza dell’Iran contro le manovre eterodirette sulla mezzaluna sciita.

Un patriota credente, un fervente rivoluzionario, sostenitore di quella autorità divina che si fa legge degli uomini e combatte la democrazia borghese quanto il marxismo proletario poiché entrambi questi sistemi “ignorano Dio e ingannano gli uomini. La vita per l’uno è produzione, per l’altro riscossione di tasse… l’uno porta alla rovina la scienza, religione ed arte, l’altro rapisce l’anima al corpo, il pane alla mano” (da “La rivoluzione Islamica”, R. Khomeyni). Un vero e proprio cambio di asse della politica poiché “nella democrazia, il governo si impegna ad eseguire la volontà popolare; nell’ordinamento politico islamico il governo e il popolo devono, l’uno e l’altro, perseguire gli obiettivi di Dio”.

Verticalità di intenti che desidera elevare le masse, perché come affermava lo stesso Soleimani “Se l’ideale di un individuo è terreno, lo tiene a terra, se invece il suo desiderio è elevato, lo eleva… La volontà dell’uomo segue ciò a cui è legato, esso ha un ruolo centrale nella volontà. Se volete valutare la forza o la debolezza degli individui, valutate a cosa sono legati”. Volontà, collaborazione, elevazione. Il sogno della rivoluzione islamica non è altro che quello di giustizia sociale che fu del Fascismo e del nazionalsocialismo. Ed in questa chiave si deve leggere la sua volontà di salvaguardare l’indipendenza e la sovranità dell’Iran dalle ingerenze esterne: “Il nostro onore e la nostra indipendenza oggi sono più importanti di qualsiasi altra cosa”; un’indipendenza omnicomprensiva che abbraccia tutti i piani dell’essere uomini: il lavoro, l’economia, la cultura, la fede. Un’indipendenza che sfida i dogmi del pensiero unico no border e che può unire popoli anche oltre le differenze etniche e religiose non perché le nega ma perché le tutela.

Soleimani non ha difeso solo l’Iran: in Siria è stato il difensore dei cristiani d’oriente, armeni, assiri e yazidi. Qassem Soleimani non è stato solo un martire della fede sciita, ma un vero e proprio eroe: a lui non importava se chi doveva aiutare fosse sunnita, sciita, cattolico o ortodosso. Gli importava che ognuno avesse un posto in cui stare, senza ingerenze straniere, gli importava “che venisse stabilito il governo di giustizia divino nel mondo” perché l’Islam “è la religione dei combattenti che vogliono il diritto e la giustizia, la religione di quelli che esigono la libertà e l’indipendenza, e di quelli che non vogliono permettere agli infedeli di dominare sui credenti”. Niente di diverso dallo iustum bellum dei Romani, che si cristallizza nei versi dell’Eneide di Virgilio:

Tu regere imperio populos, Romane, memento:
hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos.

“Tu, o Romano, ricorda di governare i popoli: queste saranno le tue arti, e d’imporre la civiltà con la pace, risparmiare gli arresi e sconfiggere i suberbi”.

Una società quella romana in cui il diritto era strettamente legato alla sfera religiosa. Iustus è ciò che rigorosamente è conforme al diritto degli uomini (ius) il quale, a sua volta, prende forma da modelli divini ed esprime nella societas la Norma, la Parola di Giove come massimo Legislatore: il Fas. “È giusta la guerra che viene intrapresa per una ragione legittima”: “bellum iustum quod de legitima ratione initur“; “È guerra giusta e pia quella che si rende necessaria per vendicare le ingiustizie”: “Iustum piumque bellum necessarium quod iniurìas ulciscitur” (Livio). Il neutro plurale, iusta, indica “ciò che è dovuto”, “ciò che spetta per giustizia” e per giustizia deve essere compiuto.

A cosa siamo legati? Dovremmo chiederci. Ad una carta costituzionale? O alla libertà? A ciò che è giusto fare o a ciò che è lecito fare? Noi non dovremmo avere dubbi su questo, la via che percorriamo è proprio quella della giusta guerra ed è sorprendente come un esempio così luminoso di ciò che è giusto fare possa giungere da tanto lontano, da una civiltà tanto diversa per quanto spiritualmente affine.

Pensare al suo martirio ci fa rabbrividire, per l’infamia e il modus operandi di chi non ha il coraggio nemmeno di guardare il suo nemico negli occhi, ma non ci fa piangere né rattristire: vedere il cameratismo negli altri uomini, anche di nazionalità e mondi diversi, che mai ci hanno conosciuto e mai ci conosceranno, ci fa credere in quell’unica grande schiera di eroi che ogni anno si rievocano nel presente del 7 gennaio. Non li abbiamo mai visti, eppure li vediamo.

Risuonano i versi del Corano, quelli della terza Sura Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul sentiero di Allah”. Cosa vuol dire? Che nessuno di coloro che è morto sulla via della giustizia è morto veramente, ma marcia sempre al nostro fianco, noi che siamo rimasti e siamo ancora sulla via del giusto. I nostri esempi sono già avanti e ci dicono “venite”. A loro dobbiamo rispondere presente.