Di Moro

È stato ribadito in un importante incontro tenutosi il 3 febbraio tra il ministro degli esteri iraniano Muhammad Javad Zarif e il corrispettivo iracheno Fuad Hussain: la migliore risposta agli omicidi a marca statunitense di Qasim Soleimani e altri martiri come lui è l’esclusione delle forze armate americane dalla regione. È idea di molti degli attori dell’area, infatti, che gli Stati Uniti siano ormai da tempo la peggiore minaccia alla stabilità del Medio Oriente.

Di questo avviso sono anche le numerose milizie sciite – ma anche sunnite – che operano in chiave anti-terroristica in stati come la Siria e l’Iraq. Queste tradizionalmente forniscono supporto affinché le istituzioni locali prendano un’unanime direzione in questo senso: allineamento alla potenza iraniana contro attori stranieri e destabilizzatori. Non solo America e Israele ma anche le monarchie del golfo, considerate finanziatrici del terrorismo.

Nei giorni scorsi, la formazione militante irachena Ashab al-Kahlf – “i fratelli della grotta” – ha pubblicato un lungo comunicato dove attaccava Kuwait e Arabia Saudita designandoli come coloro che vogliono distruggere quanto rimane dell’economia irachena, perpetuando l’instabilità politica e militare della già martoriata repubblica. La milizia è stata anche attiva contro i militari americani, percepiti come una forza d’occupazione.

Da parte loro, i militari filo-iraniani stanno in questo periodo alzando la pressione contro i loro nemici. La neonata milizia irachena Alwiya Waad al-Haq – le brigate della “Retta Promessa” – hanno lanciato un missile contro Riyad, la capitale saudita. Operazione ben conosciuta dal movimento yemenita Huthi, da anni impegnato contro la coalizione a guida Sa’ud che da anni perpetua sul loro territorio una gravissima crisi umanitaria.

Liberazione dalle forze corrotte incarnate dalla triade Washington–Tel Aviv–Riyad, quindi. Ma a che scopo? La forza politica e paramilitare libanese degli Hizbu Allah (Hezbollah) – il “Partito di Dio” – auspica ad una rinascenza del mondo islamico sotto una visione pan-islamica, certo, ma anche antimperialista e democratica, dove il diritto di autodeterminazione del popolo libanese sia garantito dalla componente sciita.

Un atteggiamento simile si può individuare nel presidente della Repubblica Araba di Siria: Bashar al-Assad, di fede sciita alawita, ma anche nella lunga tradizione politica califfale. Nella fede musulmana, infatti, è dato obbligo al governante di “prescrivere il bene e vietare il male” e di non porre “costrizione nella religione”. Concetto questo lontano dalla prassi delle formazioni militanti wahabite come l’Isis.

Sempre in Siria, poi, abbiamo la Brigata al-Baqir che – come le irachene “Forze di Mobilitazione Popolare” – è formata da militari di fede soprattutto sciita ma anche sunnita. Questi sono spesso forze ausiliarie dell’esercito siriano, anche se non hanno mancato di partecipare a scontri anche molto violenti. Sono noti per fornire un grosso supporto in termini di aiuti umanitari alla popolazione civile nelle aree in cui operano.

Forze come questa auspicano ad un “Jihad” che si avvicina al suo originale significato di “sforzo” e non “guerra”. La loro lotta si pone infatti come una resistenza militare, ma anche come un attivismo volto al portare aiuto a quei popoli martoriati da guerre, crisi e terrorismo. In questi termini, si fa il Jihad tramite il supporto concreto a quella popolazione civile che altrimenti verrebbe lasciata in balia del destino.

Spesso poi queste milizie si trovano poi a difendere armi alla mano i fedeli di altre religioni o correnti dell’Islam. È infatti nota l’attività di Hezbollah nel proteggere chiese e comunità cristiane in Siria, loro che non a caso vengono da un paese come il Libano perfettamente diviso tra sciiti, sunniti e cristiani. Lo stesso Assad, poi, ha sempre incentrato buona parte della sua retorica sull’importanza della cristianità in Siria.

Questo contro la sempre maggiore retorica wahabita che da anni infesta il Medio Oriente. Come dimenticare l’esperienza dello Stato Islamico, forza profondamente repressiva contro cui gli stessi musulmani sono scesi in prima linea? Per molti, poi, il trattamento riservato da Israele ai palestinesi è altrettanto grave. Da qui il supporto delle milizie a un popolo visto come vittima del colonialismo di Tel Aviv.

Cosa chiedono quindi le milizie filo-iraniane? Qualche giorno fa l’Ayatollah Alì Khamenei ha tenuto una lunga conferenza in memoria di Fatima, donna beata tra i musulmani. Come da manuale, il capo religioso iraniano ha espresso un articolato pensiero giuridico circa la società musulmana, il ruolo delle donne in primis.

Il pensiero sciita dal diciannovesimo secolo in poi si è caratterizzato come un rinnovamento della società musulmana e globale lontana dal materialismo e dalla decadenza che solo una classe di Imam avrebbe potuto realizzare a partire dall’Iran. Cosa che poi si è realizzata nel 1979 con la rivoluzione iraniana.

L’obiettivo è quindi guidare rettamente la società, lontano dalla degenerazione del capitalismo e dell’estremismo in attesa che ritorni l’imam occultato, il quale instaurerà – secondo la visione sciita duodecimana – un autorevole regno di giustizia e prosperità.