Di Moro

Se l’Asia e il Medio Oriente sono state colpite da un processo di decolonizzazione frettoloso e iniquo, questo andamento si può evidenziare ancora di più nell’Africa Subsahariana. Il continente nero è stato infatti quello che più ha subito le sgradevoli conseguenze di un processo mal gestito di indipendenza. Si crearono, infatti, nel giro di un paio di decenni un cumulo di stati senza nazionalità, che quindi videro la nascita di problematiche economiche, politiche, militari e sociali che si protraggono ancora oggi dopo decenni dall’indipendenza.

Un esempio clamoroso è l’attuale Repubblica Democratica del Congo. L’enorme stato ottenne l’indipendenza dal Belgio nel giugno del 1960 in maniera relativamente pacifica. Da Bruxelles si ebbe infatti paura che i disordini interni sarebbero degenerati in una sanguinosa guerra d’indipendenza come quella che negli stessi anni colpiva l’Algeria. Il caso del Congo belga divenne però un trauma per la comunità internazionale, che mise in evidenza tutte le contraddizioni di un fenomeno che oramai aveva subito una travolgente accelerazione

Un’indipendenza improvvisa della regione vide l’immediato e unilaterale ritiro delle istituzioni e dell’esercito belga. Bruxelles si lasciò indietro un territorio privo di infrastrutture, con delle istituzioni deboli e impreparate. Tuttavia, si dimenticarono anche un numero considerevole di europei, rimasti in balia di una crisi senza precedenti. Dopo lo scoppio della Crisi del Congo, una sanguinosa guerra civile, si videro coinvolti interessi economici e geopolitici, incarnati spesso da controversie etniche.

I seguaci del governo centrale, comandati dal militare golpista Mobutu, nonché supportato da ONU e blocco atlantico, si scontrarono prima con lo stato del Katanga – supportato dagli europei rimasti indietro e da stati come Rhodesia, Portogallo, Sudafrica –  e poi, con la fazione filo-comunista, vedendo un accentramento dei poteri nelle mani di Mobutu, il quale assunse dopo la guerra un potere dispotico e asservito al rendimento personale delle oligarchie. Nasceva allora– supportato da Washington – lo stato dello Zaire.

Una situazione simile si vide anche in molte altre zone dell’Africa. Due altre ex colonie belghe – Ruanda e Burundi – vennero scosse da ripetuti genocidi operati per via delle tensioni etniche risalenti all’amministrazione europea. Il caso più evidente è sicuramente quello del genocidio dei tutsi, operato dagli Huti in Ruanda. L’amministrazione coloniale belga favoriva i primi, e nel dopoguerra del 1994, la conseguenza fu l’omicidio, a colpi di fucili e maceti, di oltre un milione tra tutsi, twa e di molti hutu invece più moderati.

Il genocidio del Ruanda ebbe conseguenze a portata internazionale. Quando i tutsi ripresero il controllo del Ruanda, oltre 2 milioni di hutu fuggirono nello Zaire, minacciando direttamente la minoranza tutsi della nazione. Questi ultimi decisero quindi di supportare in massa l’opposizione al regime di Mobutu. Ne scaturì nel 1996 una sanguinosa guerra civile che portò la caduta del governo e la trasformazione dello Zaire in Repubblica Democratica del Congo. La brutalità di questo conflitto sconvolse un mondo ormai globalizzato.

Nel 1998 scoppiò poi la seconda guerra civile del Congo. I tutsi, supportati da Ruanda, Burundi, Uganda e altre milizie, si scontrarono con una moltitudine di avversari. Oltre agli hutu, entrarono in campo i seguaci del governo nazionale e una galassia di milizie ostili ai tre governi avversari. Il conflitto causò direttamente o indirettamente 5,4 milioni di morti. Tutt’oggi la situazione non è pacificata, tant’è che nel 2021 l’Italia ha visto la morte di Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mostapha Milambo, uccisi da un gruppo non meglio specificato di ribelli.

Si potrebbero citare molti altri esempi, dal Camerun alla Nigeria, passando per la Mauritania e per il Sudan. Proprio in quest’ultima regione la recente guerra civile ha portato nel 2011 all’indipendenza del Sud Sudan. Nel 2013, sempre nella neo-costituita nazione, fu un golpe dal marcato accento etnico. Ulteriore dimostrazione di come la decolonizzazione sia stata mal gestita, ignorando completamente sia il fattore etnico che il principio di nazionalità, invece affermato in Europa da Wilson a seguito della Grande Guerra.

Sistemi alternativi, tuttavia, hanno provato ad imporsi in alcune regioni dell’Africa meridionale, fallendo a causa di interessi soprattutto sovietici. È il caso del Portogallo di Salazar. Questo, subì dal 1961 al 1974 una durissima guerra coloniale, finita solo con un colpo di stato ad opera di ufficiali che respingevano l’integrazione degli africani nelle gerarchie militari regolari,  provvedimento preso a causa della sempre maggiore scarsità di sottufficiali. Quest’ultimo evento passerà alla storia come la “Rivoluzione dei Garofani”.

La politica coloniale di Salazar fu comunque relativamente semplice: integrare le colonie nel proprio territorio nazionale, portando alla progressiva assimilazione linguistica e religiosa delle popolazioni locali. Nel frattempo si mirò alla realizzazione di progetti di sviluppo economico e infrastrutturale, in modo che la madrepatria potesse emancipare le popolazioni dell’Africa, compiendo la cosiddetta “missione civilizzatrice”. Questo progetto decadde a causa di una durissima guerriglia supportata da Cuba e Unione Sovietica.

Circostanza analoga fu anche per la Rhodesia, ex-colonia inglese dalla forte componente bianca. Sotto Ian Smith, la regione si proclamò indipendente nel 1965. Tuttavia, la comunità internazionale non volle riconoscere uno stato creato da una minoranza bianca, perciò ostacolò il nuovo governo Salisbury con sanzioni. Lo stato collassò nel 1979, dopo che Sudafrica e Portogallo cambiarono regime politico e smisero di supportare Ian Smith. La guerriglia ebbe infatti la meglio quando poté contare sull’arrivo di aiuti dal Mozambico indipendente.

Uno dei motivi per cui l’ONU non supportò la Rhodesia fu la costituzione definita “meritocratica e segregazionista”, che sarebbe invece dovuta essere democratica. Ian Smith, da parte sua, sosteneva che una popolazione ancora arretrata avrebbe mandato in rovina lo stato. I bianchi si proponevano quindi di “sigillare” l’unione tra le etnie locali e di emanciparle, per poi inserirle progressivamente nella vita politica. Smith era anche consapevole che i bianchi non sarebbero mai stati in grado di imporsi demograficamente. 

A seguito della costituzione del Zimbabwe, nell’ex Rhodesia si impose un modello autoritario e cleptocratico come quello congolese prima accennato. L’impreparazione del regime di Mugabe fu in grado unicamente di ridistribuire, col supporto della comunità internazionale, le ricchezze dei bianchi ad una popolazione africana non istruita, il che causò una crisi economica spaventosa. Mugabe fu deposto nel 2017 con un colpo di stato. Alla sua morte, si lasciò dietro lo Zimbabwe devastato dall’iperinflazione e dalla povertà.

Il fattore dell’emancipazione economica venne ignorato per quanto riguarda tutta l’Africa. Il Regno Unito, ad esempio, pensò unicamente a garantire un sistema democratico che molto difficilmente sarebbe stato rispettato. Infatti, nelle sue colonie più importanti, come Uganda, Ghana e in parte anche in Nigeria, sorsero governi autoritari molto distanti dalle esigenze della popolazione. Un caso molto critico riguarda quello dell’Uganda, teatro di numerose guerre civili e massacri etnici per motivazioni di potere individuale.

Se i britannici abbandonarono interi territori a loro stessi senza pensare alle conseguenze sociali ed economiche, c’è da dire che il loro atteggiamento riuscì effettivamente a rendere indipendenti le colonie sotto il loro dominio. Gli inglesi mantennero il controllo principalmente su compagnie come quella del Canale di Suez, decaduto nel 1956, e varie aziende petrolifere, non opponendosi alla realizzazione dei nuovi stati. Discorso vagamente differente per Parigi, il cui controllo economico e politico si abbattè ancora sulle ex colonie.

Quando nel 1960 la Francia concesse in blocco l’indipendenza alla quasi totalità delle sue colonie africane, si guardò bene di assicurarsi una perenne influenza sui nuovi stati. Lo fece tramite un controllo non solo economico, ma anche finanziario. Le ex colonie continuarono infatti ad avere una delle due valute agganciate al Franco, rendendo tutt’oggi l’Africa francese dipendente da Francoforte e Parigi per questioni monetarie e finanziarie. I francesi risultano inoltre avvantaggiati dall’Ohada, organizzazione attiva nell’ambito dei commerci regionali.

La Francafrica viene quindi da decenni rilegata in uno stato di sottosviluppo. Questo anche a causa di molteplici colpi di stato che tutt’oggi continuano a spodestare interi governi. L’ultimo fatto affine è avvenuto nel 2021 in Ciad, dove milizie vicine al capo della guerra libico Khalif Haftar, rasente a Parigi, hanno assaltato la capitale N’djamena, uccidendo il presidente Idriss Deby, storicamente contrario al Franco Centrafricano (XAF). Eventi simili si sono verificati nel 2019 in Gabon, nel 2014 in Gambia e nel 2008 in Mauritania,

Uno dei fatti più eclatanti fu l’omicidio del politico del Burkina Faso Thomas Sankara, ucciso nel 1987 in circostanze sospette. Di ispirazione socialista, il politico riuscì a condurre un’eccezionale politica atta a emancipare la popolazione della neo-costituita nazione. Rese relativamente prospero il territorio, riuscendo altresì ad allontanare gli interessi neocoloniali di Francia e Stati Uniti. A partire dalla sua morte lo sviluppo nella nazione si è arrestato e oggi il Burkina Faso è una delle nazioni più povere del continente.

In conclusione, è innegabile come sia sbagliato ristabilire dei domini coloniali nel mondo, ma è anche vero che,  in base a quanto detto nella prima parte di questo articolo, il processo di decolonizzazione è avvenuto in maniera frettolosa e non ha tenuto conto delle esigenze dei territori. Diverse nazioni sono nate dal niente, spesso tramite stati che esistevano solo in parte, essendo gli stessi, frutti di interessi risolti a tavolino.

Ci sarebbe potuta essere un’alternativa? Se l’ONU, campione di moralismo moderno, avesse agito in maniera meno impulsiva, tenendo meno conto degli interessi di Washington e Mosca, ma agendo di più sulla base di un graduale processo di emancipazione, con all’apice la totale indipendenza di stati nazione rispettosi del fattore etno-culturale, oggi magari, milioni di individui non vivrebbero in nazioni che, come quelle africane, sono la faccia oscura di una grande medaglia chiamata mondialismo. 

Per adesso, intanto, possiamo solo sperare che l’opinione pubblica capisca le reali esigenze del terzo mondo che continua a non comprendere. Come identitari ci sentiamo ogni giorno etichettati  responsabili delle tragedie del globo, senza contare che, il mondo di oggi, nasce dalle contraddizioni di un sistema imperialista da un lato, da quelle di un sistema anti-imperialista dall’altro e dal male di un globalismo capitalista e plutocratico.

IL DRAMMA DELLA DECOLONIZZAZIONE: CONTESTO STORICO E ASIA – PRIMA PARTE