Di Moro

Il petrolio ha segnato profondamente la geopolitica del trentennio successivo alla caduta dell’Unione Sovietica. Se infatti, l’Oro Nero si è rilevato di fondamentale importanza fin dalla commercializzazione di massa dei veicoli a motore, è solo a partire dagli anni ’90 ha iniziato a riempire le agende delle principali potenze del nuovo ordine mondiale.

Durante la Guerra Fredda, ad esempio, erano la politica e l’ideologia a muovere le condotte dei due blocchi contrapposti. L’obiettivo era indebolire l’avversario, anche facendo pressione per cercare di conquistare politicamente nazioni ricche di risorse naturali ed economiche. Quest’ultimo fattore, tuttavia, diverrà quello predominante nel trentennio 1989 – 2019.

Nel nuovo mondo, libero da blocchi geopolitici predefiniti, gli Stati Uniti dovettero organizzarsi per mantenere a tempo indeterminato il ruolo di unica Superpotenza mondiale. Lo fece da un lato, legittimandosi come sacerdote dell’unico sistema politico giusto – la democrazia – e dall’altro, imponendo il proprio sistema economico – rigorosamente liberale e capitalista.

Il “terzo dopoguerra” vede infatti un mondo dollaro-centrico, con un universale predominio della finanza. In questo contesto, il commercio petrolifero divenne il nuovo garante del commercio e della geopolitica internazionale, in maniera similare a come fece a suo tempo quello delle spezie. Chi ne risentì, di conseguenza a tale fenomeno, fu il Sudan.

Il Sudan coloniale

Il Sudan si rivelò inizialmente essere un tipo di esperienza coloniale extraeuropea, con il Chedivato d’Egitto di Muhammad Ali Pascià che completò la sua conquista nel 1824. L’entroterra della regione manifestò fin da subito essere estremamente povero e di difficile tenuta. Le elite egiziano-ottomane dovettero mantenere le nuove conquiste con la forza.

La deportazione di decine di migliaia di schiavi, la corruzione, l’incompetenza delle istituzioni e l’eccessiva pressione fiscale portarono nel 1881 alla rivolta mahdista capeggiata dal mistico Muhammad Ahmad, il quale voleva liberare il Sudan dalle ingerenze straniere, portando altresì un rinnovamento di un Islam giudicato corrotto e decadente.

La rivolta fu repressa nel 1899 da una coalizione formata da Egitto, Inghilterra, Italia, Belgio ed Etiopia. Quello che ne derivò fu un dominio condiviso di Londra e Cairo. All’epoca l’Egitto era solo nominalmente parte dell’Impero Ottomano e di fatto un protettorato inglese, lo stesso valeva anche per il Sudan, divenuto una colonia strategica per Londra in Africa.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, questo fenomeno divenne particolarmente evidente. Nel 1916 il sultanato del Darfur venne accorpato alla colonia del Sudan, nel 1946 fu invece la volta del Sudan del Sud. Nel 1956, nonostante le iniziali rivendicazioni egiziane, la regione ottenne l’indipendenza come uno stato unitario, dando inizio ai problemi presenti tutt’oggi.

Il Sudan indipendente

Con l’evolversi della situazione post-coloniale, il Sudan – come il resto dei neonati stati africani – fu interessato da conflittualità etniche e politiche. La differenza principale si rilevò nel nord, arabo e musulmano contrapposto al sud, cristiano ed animista. Quest’ultimo, in particolare, si riteneva assoggettato ad un dominio indesiderato da parte del nord.

Nel 1955 scoppiò una guerra civile che interessò il Sudan del nord e del sud. La motivazione che portò ad un conflitto fu la promessa, disattesa da parte del nord, della creazione di uno stato federale che vedesse riconosciute le differenze locali. L’evento venne preso dalla comunità internazionale come un conflitto periferico di poco conto sullo scacchiere della guerra fredda.

Le problematiche della regione furono però amplificate alla fine degli anni ’70, quando gli americani scoprirono dei consistenti giacimenti di petrolio in Darfur. Poco dopo, enormi quantitativi di oro nero furono rilevati anche nell’attuale Sudan del Sud, tanto che gli stessi arrivarono a costituire l’85% delle estrazioni nazionali.

Nel 1989 la Repubblica del Sudan fu interessata da un colpo di stato militare che portò al potere il colonnello Omar al-Bashir, riconosciuto dall’ONU come criminale di guerra e deposto solo nel 2019 da un ulteriore colpo di stato. Le sue politiche furono improntate su una visione politica dell’Islam, sul modello delle monarchie del Golfo.

L’inferno del Sudan del Sud

Rispetto alla prima, la seconda guerra civile sudanese si caratterizzò per l’intensità molto più elevata. La stessa scoppiò nel 1985, quando, l’industria del petrolio iniziava a prendere piede nella regione. I sud-sudanesi lamentavano il fatto che quanto derivava dall’estrazione, veniva raffinato al nord, impedendo di fatto al sud di usufruire dei profitti e di svilupparsi.

Il conflitto provocò 2 milioni di morti in una regione che contava appena 8 milioni di abitanti. Quando nel 2005 fu firmato l’accordo di pace, la comunità internazionale iniziò a preoccuparsi del diritto di autodeterminazione di un popolo petro-munito, e nel 2011 il 98,8% del 96% degli abbienti diritto, votò a favore dell’indipendenza del nuovo stato.

Il dramma, però, non finì per il Sudan del Sud. Alla fine del 2013 scoppiò la guerra civile sud-sudanese, questo quando il presidente Salva Kiir Mayardit – già importante figura rivoluzionaria durante la guerra – denunciò un tentato colpo di stato e si operò per deporre alcuni generali. Pochi giorni dopo, cominciarono le ostilità.

La motivazione reale legata al conflitto è però da ricercare nella volontà di controllare i giacimenti petroliferi e nella corruzione ad essa legata. La guerra assunse anche un carattere etnico, tra dinka e nuer. Nel 2020 fu firmato un cessate il fuoco che risultò in un governo di unità nazionale. Nella crisi, 400 mila individui persero la vita.

La guerra del Darfur

Con l’indipendenza del Sudan del Sud non si deve però pensare che siano finite le conflittualità nel nord. Tutt’ora il territorio è infatti segnato da tensioni e scontri dal marcato accento etnico, con il petrolio che pure rappresenta il pomo della discordia. Tra le varie aree colpite, la crisi peggiore è da ricercare nel Darfur, nel Sudan occidentale.

La popolazione locale lamenta infatti una sostanziale iniquità nella distribuzione delle ricchezze. Nonostante la maggior parte del petrolio provenga da qui, i profitti vanno a Khartum o all’estero, soprattutto in Malesia e in Cina. Questo problema sussisteva già in epoca coloniale, con la maggior parte dei progetti di sviluppo che riguardava unicamente il Nilo.

Dagli anni ’80, Khartum controlla il territorio sfruttando le milizie arabe locali – i Janjawid, demoni a cavallo” – le quali garantivano il terreno alle compagnie petrolifere massacrando gli abitanti di un determinato territorio, per poi consegnare lo stesso alle autorità governative. Per questo, al-Bashir è stato giudicato come criminale di guerra dall’ONU.

Allo stato attuale, il Darfur soffre della mancanza di beni, servizi e infrastrutture. Sono oltre 300.000 i morti e 3 milioni gli sfollati. Così come in Sud Sudan, anche qui vi si trovano enormi campi profughi. Gli stessi sono sorvegliati dall’ONU, sicché in entrambi i casi si sono verificati tentativi di irruzione e di massacro dei residenti.

IL DRAMMA DELLA DECOLONIZZAZIONE: AFRICA E CONSEGUENZE-SECONDA PARTE