Di Rocco

Intorno al 508 a.C. Roma era in pieno conflitto contro gli Etruschi. Secondo una leggenda, Gaio Muzio Cordo, stanco dell’immobilismo della battaglia, propose al Senato di uccidere personalmente il comandante etrusco Porsenna.

Sfruttando le sue origini etrusche, Muzio riuscì facilmente ad insediarsi nell’accampamento nemico. Arrivato sul posto, tuttavia, vide Porsenna e il suo scriba distribuire le paghe ai soldati, ma non conoscendo l’identità del comandante nemico, si trovò di fronte a un bivio: chi uccidere tra i due?

 Secondo quanto raccontato da Tito Livio ne “Ab Urbe condita”, Muzio si affidò al fato e sbagliò il bersaglio, pugnalando lo scriba. Immediatamente catturato, fu portato dinanzi a Porsenna, che affrontò con intrepida audacia e lealtà, e disse:

“Volevo uccidere te. Da nemico a nemico, e morire non mi spaventa. Il coraggio nell’osare e nel soffrire è cosa da romani. Chi aspira ad una grande gloria dà il corpo per questo!”

Senza battere ciglio infilò la mano che aveva mancato il bersaglio, la destra, in un braciere ardente, e da lì venne soprannominato Scevola (mancino). Porsenna fu così impietrito e sconvolto dal gesto del giovane romano, che lo lasciò andare.

Seppur si sia già scritto molto riguardo le gesta di Muzio Scevola, quali sono gli effettivi spunti della sua storia, che possiamo usare come veri e propri precetti della virtus, arte tipicamente romana?

Innanzitutto, occorre ripassare l’etimologia latina della parola “uomo”, e ci sono due termini che venivano usati dai romani. Il primo è “homo”, che si ricollega all’humus, dunque, alla terra, che, di conseguenza, evoca l’immagine di un uomo simile alla stessa, semplice, talvolta ricco altre misero, in maniera del tutto casuale, di fatto, senza aspirazione e volontà d’animo, pronto ad accogliere in maniera impassibile ciò che porta il destino e la natura. Non a caso “homo”, in latino, indica l’essere umano in generale, soltanto dal punto di vista fisico.

Ma ne esiste un secondo, che indica l’uomo anche dal punto di vista morale, è “vir”, da cui deriva la parola “virtus” (virtù), perciò la virilità e virtuosità dell’essere umano, che si innalza e vuole essere protagonista della sua esistenza, diventare élite e non massa, quindi, dirigere e non essere diretto, tracciare e incidere indelebilmente la storia, ergersi, proprio grazie a queste qualità d’animo per essere esempio da seguire. Stile virile, insomma, delle idee che diventano azione, dello spirito che viene forgiato e non scalfito dalle intemperie della vita, che non indietreggia, pronto a squarciare l’avvenire ed abbattersi su di esso come onde di un mare in tempesta, con l’irriverenza propria della giovinezza, che combatte e sposa il rischio senza timori, anche a costo di pagarlo con la vita stessa.

Proprio questa seconda definizione incarna a pieno la storia e le parole di Gaio Muzio Cordo, esempio di “virtus”, più che mai in questi tempi bui, fatti di uomini non degni di essere chiamati tali, pavidi, con identità liquefatte, che abbassano la testa dinanzi alle infamità quotidiane, e aspettano sempre che sia qualcuno a muoversi al posto loro, che dobbiamo fare nostra ogni giorno, per far sì che non rimanga nascosta nei meandri di un libro o di un sito web ma come dell’animo, se realmente si vuole, per usare una celebre frase di Julius Evola, “restare in piedi in un mondo di rovine”.