di Michele

Il green pass fa schifo. Già il livello di esasperazione che ha raggiunto il dibattito pubblico è un segnale di allarme in questo senso. Cerchiamo però di capire il perché, senza scivolare in una retorica che è alla lunga non solo è stancante ma anche controproducente. Ad esempio, gridare allarmati al nazismo imperante o ad una improbabile Norimberga vaccinale non servirà a niente.

Visto che non siamo delle vecchiette che discutono su quale pastiglia per la pressione prendere, eviteremo di trattare i presupposti sanitari della faccenda. Quello sul green pass è un dibattito squisitamente politico e va trattato come tale.

Il green pass introduce un obbligo vaccinale surrettizio, in cui le alternative alla vaccinazione sono disponibili ma di fatto insostenibili (esclusione sociale o ricorso continuo ai tamponi), facendo ricadere sul singolo il peso di una scelta che è però collettiva. Questa deresponsabilizzazione dello stato è visibile anche nella gestione dei controlli, che hanno generato una confusione fantozziana e che si basano sulla semplice delazione.

Manca lo stato, manca la decisione politica capace di informare una comunità verso obbiettivi comuni. Siamo all’interno di quella che il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han definisce politica palliativa:

La politica palliativa manca di visione e non sa realizzare riforme incisive, che potrebbero far male. Preferisce ricorrere ad analgesici di breve efficacia che si limitano a velare disfunzioni e fallimenti sistemici. La politica palliativa non ha il coraggio del dolore. Quindi perpetua l’Uguale.

In questo vuoto passiamo da un paradigma del soggetto disciplinare ad uno del soggetto di prestazione. Quest’ultimo è un dispositivo di controllo post-storico, post-politico, post-eroico. Ancora più pervasivo in quanto si basa sull’illusione di una libertà che è però declinata solo in senso materiale:

La nuova formula di dominio recita: Sii felice. La positività della contentezza scaccia la negatività del dolore. In forma di capitale emotivo positivo, la felicità deve garantire un’ininterrotta capacità di prestazione. L’auto-motivazione e l’auto-ottimizzazione rendono molto efficiente il dispositivo neoliberista della felicità, in quanto il dominio si fa strada senza grandi fatiche. Il subordinato non è nemmeno consapevole della propria subordinazione. Crede di essere libero. Senza alcuna costrizione esterna, si sfrutta volontariamente credendo di realizzarsi. La libertà non viene oppressa, bensì sfruttata. Il Sii libero crea una costrizione più disastrosa del Sii obbediente.

Per dirla con Jünger: “è più sottile e insidioso legare l’uomo con fili anziché con catene”. Le implicazioni securitarie e panottiche di chi vuole il green pass e le rivendicazioni di fantomatiche libertà individuali di chi non lo vuole, o almeno di parte di chi non lo vuole, fanno il paio nell’espungere il dolore dalla vita. Il che equivale a dire immobilizzare la vita stessa, disconoscere la sua intima tragicità. Significa negare quella dimensione spirituale dell’uomo che sola rende possibile l’innalzamento dello stesso dalla sua semplice animalità.

Il conflitto decisivo non è quindi quello tra etica pubblica e libertà individuali. Come peraltro ha già scritto Adriano Scianca (https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/dittatura-green-pass-macche-pasticcio-tutto-democratico-202250/), evocare il nazismo come incarnazione satanica del totalitarismo che rinasce sotto forma di dittatura sanitaria, è semplicemente folle. Tralasciando tutta l’insensatezza storica di un paragone del genere, si manca pure il punto squisitamente polemico. Se il totalitarismo è qualcosa, è al massimo un’ipertrofia dello stato non la sua mancanza. Il totalitarismo fonda sé stesso nella visione dello stato in quanto totalità, in quanto tutto organico. Da ciò deriva che la libertà del singolo si realizza in uno spazio concreto e non in quell’astrattezza matematica che è l’individuo separato dalla comunità e dello stato.

Prescindendo da qualsiasi osservazione di merito riguardante il nazismo, operare una sorta di reductio ad Hitlerum nei confronti di chi gestisce la pandemia significa parlare una lingua straniera. Non si crea nessun cortocircuito logico, si finisce semplicemente nel campo di chi chiama fascismo o nazismo tutto ciò che non gli piace.

Il green pass è figlio dei tempi. Se proprio gli dobbiamo trovare un antecedente politico quello è la democrazia, non il totalitarismo. Anzi, tutto quello che ha animato l’intera discussione riguardante la pandemia rispecchia quella ossessiva ricerca della sicurezza che per Jünger è ciò che caratterizza il modo di pensare borghese, portando ad esiti paradossali poiché “il pericolo non esige soltanto d’essere parte di ogni ordine possibile, ma è anche la matrice di quella superiore sicurezza dalla quale il borghese sarà sempre escluso”. Per inseguire una sicurezza quietistica ed animale non siamo rinunciando alle nostre libertà, ma direttamente alle nostre vite.