Di Enrico

Jihad, un vocabolo di origine medio orientale e tradizione antichissima, entrato però stabilmente anche nel nostro dizionario di occidentali solo di recente. È infatti, a partire dallo scoppio dell’emergenza terrorismo che giornali e i media in generale hanno iniziato a usare questa parola coranica, spesso però con troppa leggerezza e scarsa conoscenza del termine, presentando quindi il tema del Jihad come una questione di “semplice” attualità. Ebbene non è così, la realtà è ben diversa, cerchiamo di capire perché.

Innanzitutto, cosa si intende con Jihad? In genere, quando se ne sente parlare nell’informazione e nella stampa occidentale contemporanea, questo termine viene tradotto in modo molto superficiale come “guerra santa”; questa però rappresenta una semplificazione brutale. Il termine Jihad, infatti, di per sé vuol dire “sforzo”. In contesto religioso può essere correttamente interpretato come “lo sforzo di fare ciò che è gradito a Dio” ed è qui che iniziano i primi problemi interpretativi. Perché in una religione monoteista e abramitica come l’Islam (che al pari del Cristianesimo insegna ai propri fedeli di cercare di capire cosa vuole Dio da loro e realizzarlo), un concetto che intende dire “sforzati di fare ciò che Dio vuole da te” si può interpretare in tante maniere. Come si arriva quindi da questo concetto alla guerra vera e propria?

Ebbene il tema della guerra sorge quando, in un certo contesto, il fedele si trova a pensare: «Se la Fede è minacciata e se i credenti sono in pericolo, cosa bisogna fare?». In questo l’Islam è sempre stato molto chiaro, lo “sforzo di fare ciò che è gradito a Dio” può voler dire anche la guerra. Una posizione del genere implica però che, nell’interpretazione teologica prevalente, Jihad sia da intendere come un concetto difensivo.

I teologi musulmani sono quasi sempre stati concordi nel dividere il tema del Jihad a sua volta in due “frange”, se così vogliamo chiamarle: il grande Jihad (o Jihad maggiore) e il piccolo Jihad (o Jihad minore).

Il Jihad minore, come scrisse anche Julius Evola, riguarda la lotta fisica, la guerra materiale. Il Jihad maggiore invece riguarda la lotta che ogni musulmano deve fare contro sé stesso, contro le proprie passioni e i propri vizi. Insomma, rivoltarsi da cima a fondo per giungere alla “fede perfetta”, ad esempio attraverso l’approfondita lettura e lo studio dei testi sacri (il Corano e gli Hadith del profeta).

Doverosa a questo punto una piccola parentesi, già il fatto che la guerra materiale in difesa della fede venga definita “piccola” o “minore”, lascia intendere che “a sguainare la spada sono bravi tutti”, mentre la guerra contro sé stessi per migliorarsi come uomini e come fedeli è qualcosa di più complicato e faticoso.

Naturalmente parlando di Jihad minore (e quindi di “guerra santa”) a noi occidentali viene quasi automatico il paragone con il fenomeno delle Crociate, come se si trattasse della faccia islamica e della faccia cristiana della stessa medaglia. Almeno nella teoria, non è proprio così.

Nella realtà pratica invece (tanto in quella del tempo quanto in quella dei giorni nostri) i concetti possono anche equivalersi. Ad esempio, quando il Sultano d’Egitto Salah al-Din affrontò i crociati nella battaglia di Hattin (vicino al Lago di Tiberiade) nel 1187, è facilmente supponibile che gli uomini di entrambi gli schieramenti prima di gettarsi nella mischia abbiano pensato qualcosa tipo: «Dio è con noi ed è contento di vederci estrarre la spada».

Un esempio invece più vicino alla teoria e più attuale delle Crociate, sta avvenendo proprio ora in Afghanistan; abbiamo due grandi schieramenti che ritengono entrambi di star combattendo “per la causa di Dio e dell’Islam”. Lo dicono i talebani e lo dicono i combattenti dell’Alleanza del Nord di Ahmad Mas’ud. Questi ultimi anzi sono dei “Mujahidin”, che in arabo vuol dire letteralmente “coloro che mettono in pratica il Jihad”, poiché questa parola nasce dalla combinazione del prefisso “mu” (che indica “chi fa qualcosa”) e il tema consonantico “J-H-D”. Quindi come il “mu-slim” (MU+S-L-M) è colui che mette in pratica l’Islam (il musulmano, dunque), allo stesso modo il “mu-jahid” è colui che mette in pratica il Jihad.

Prima di addentrarci nell’analisi di alcuni passi del Corano o degli Hadith che parlano di questo tema, è bene precisare un’ultima cosa, che è valida sia quando si parla del passato che del presente: un conto è ciò che c’è scritto nei testi sacri, un altro conto è ciò che i fedeli hanno interpretato e compiuto nel concreto.

Detto questo, iniziamo analizzando non il Corano, ma un passaggio degli Hadith, nello specifico il capitolo 56 (che si intitola “La Guerra Santa”) della raccolta di al-Buhari. E questo passo recita così:

«Interrogai una volta l’Inviato di Dio domandandogli: ‘O Inviato di Dio, qual è l’azione più eccellente su tutte?’. ‘La preghiera, fatta al momento giusto’ rispose. ‘E poi che cosa?’ ‘La reverenza verso i genitori’ ‘E poi?’ ‘Il Jihad sulla via di Dio’.»

In questo passo si vede come il Jihad sia qualcosa di molto importante dal punto di vista islamico, dato che viene messo quasi alla pari della preghiera, ma il problema è sempre lo stesso; di quale Jihad si parla? Perché “lo sforzo sulla via di Dio”, come detto si può intendere in tanti modi. È anche vero che in questo stesso capitolo della raccolta, si menziona un altro Hadith in cui il profeta condanna l’uccisione di donne e bambini durante il Jihad e, parlando dunque di uccisioni, si intende che si sta parlando di Jihad minore. Altrettanto vero però è che in un altro capitolo (69) di questa raccolta si dice: “Chi si dà da fare per una vedova e per un povero è come per chi parte per il Jihad sulla via di Dio”. E qui invece sembra che si stia parlando di Jihad maggiore. Quindi in questo caso persino gli Hadith non risultano perfettamente chiari.

E il Corano allora? Anche il Corano sul tema della guerra è a volte ambiguo. Bisogna inoltre tenere a mente che nell’Islam non esiste un’interpretazione “standard” del Corano; in una religione che non ha un “Papa” o un clero, nella concezione più cattolica del termine, si formano tante scuole di pensiero con a capo dei maestri e ogni credente è legittimato a scegliere il maestro che preferisce.

Esistono però dei passi del Corano in cui si parla della guerra e della sua liceità, usando il termine Jihad e se ne parla però sempre come di un concetto difensivo. Ad esempio nella Sura II:

«Combattete sul sentiero di Dio contro coloro che vi combattono, ma non eccedete, poiché Dio non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate, scacciateli da dove vi hanno scacciati: la discordia è peggiore della strage. Ma non combatteteli presso il Tempio Sacro, a meno che essi non vi abbiano aggredito lì. Nel qual caso, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti. Qualora però essi desistano, ricordate che Dio è colui che perdona.»

(Corano, Sura II, vv.190-192)

Proviamo ad analizzare questo passo di quella che è la Sura più imponente del Corano (286 versetti).

«Combattete chi vi combatte» ed emerge quindi quello spirito difensivo della guerra di cui parlavamo prima, «ma senza eccedere poiché Dio non ama coloro che eccedono» che viene solitamente interpretato come divieto di uccidere i prigionieri e di massacrare donne e bambini. Concetti completamente dimenticati da chi oggi compie attentati nei luoghi pubblici uccidendo indipendentemente dal sesso o dall’età. (Comincia ad essere chiaro il punto del discorso?)

«Scacciateli da dove vi hanno scacciato»: questo ovviamente si adattò molto bene alle Crociate e si adatta bene all’attuale questione palestinese, poiché vuol dire che una volta che in un luogo è arrivato l’Islam, è inaccettabile per i musulmani che qualcun altro cerchi di conquistarlo.

«Ma non combatteteli presso il Tempio Sacro»: cos’è il Tempio Sacro? Nel testo originale la parola sarebbe “masjid”, cioè moschea. Ma con quella stessa parola nel Corano si indicano anche le chiese cristiane, per esempio. Poiché nell’ottica monoteista islamica anche i cristiani seguono il vero Dio, anche se magari sbagliano nel modo di venerarlo e così via. Anche questo però sembra essere un versetto completamente dimenticato oggi, quando in Medio Oriente si fanno saltare in aria le chiese o anche le stesse moschee (purché siano Sciite anziché Sunnite).

Insomma, alla luce di quanto abbiamo detto fino ad ora, si evince che il tema è piuttosto complesso e certamente non vi metteremo la parola fine con questo articolo. Considerando anche che analizzare che cosa dicono il Corano e gli Hadith del profeta in merito, non ci spiega tutto, non ci aiuta a capire che cosa sia esattamente il fenomeno attuale del terrorismo dell’ISIS o di al-Qaida o da dove esso provenga.

Una cosa è certa: troppo spesso la gente dei testi sacri ne fa quel che vuole e li interpreta o stravolge a proprio piacimento.

Quello che però non bisogna mai dimenticare è che la realtà non è mai un binomio tra buono e cattivo o bianco e nero, così come lo sono le culture altrui che non abbiamo mai avuto la briga di studiare. Il giorno in cui smetterà di esserci la presunzione di poter capire e sintetizzare la realtà in 280 caratteri su twitter sarà un gran giorno per tutti.