di Saturno

Con l’imporsi della tecnologia nella vita delle persone, sono via via emerse nuove figure professionali, fra cui quella che prenderemo in esame oggi, cioè quella del content creator su piattaforme come YouTube e Twitch.

Larga parte della società non riesce ancora a riconoscere pienamente questo tipo di attività come un vero e proprio lavoro, ma in realtà se si analizza bene l’attività lo è a pieno titolo. Lavorare nel campo dell’intrattenimento, come comico, regista di film o attore di teatro sono considerati da tutti dei lavori, ma essendo oggi l’intrattenimento un ambito che ha a che fare anche con internet, telefoni e computer, non c’è motivo di denigrare lo youtuber o lo streamer in tal senso.

Tra l’altro “segregare” idealmente questo lavoro al solo settore dell’intrattenimento è sbagliato, in quanto vi sono anche creators che si occupano di storia, geografia, geopolitica, insegnamento di lingue, filosofia, notizie e attualità e chi più ne ha più ne metta. Considerando un contesto come quello italiano, leggasi pieno di persone che campano coi sussidi statali o vengono mantenute dai genitori anche in età adulta, non ha certo un gran senso prendersela con chi riesce a guadagnarsi da vivere facendo video su internet.

Come tutte le novità però, questo lavoro è decisamente deregolamentato, complice anche il fatto che non si viene effettivamente assunti come avviene con un contratto di lavoro tradizionale. Ad esempio per YouTube si monetizza la pubblicità a inizio video, a delle condizioni imposte dalla piattaforma, mentre per Twitch, c’è la possibilità di far pagare un abbonamento agli spettatori per vedere i video (sempre a delle condizioni imposte dal sito).

Infrangere queste condizioni con i propri contenuti nella maggior parte dei casi porta alla demonetizzazione del contenuto stesso e per situazioni ritenute più “gravi” si arriva fino al blocco o la cancellazione del profilo.

Le condizioni spaziano dai classici (e spesso comprensibili) divieti come quello di mostrare nudità o quello di “incitare al terrorismo”, a divieti molto meno sensati. Tra di essi, ad esempio, c’è su YouTube il divieto di nominare il covid (o coronavirus), decisamente un gran problema per chi crea contenuti relativi all’attualità.

Molti di queste regole sono semplicemente assurde e come se non bastasse, spesso YouTube demonetizza video ed interi canali senza dare spiegazioni, senza quindi dire quale “standard della community” sia stato violato, in quale video ed in quale momento.

Ora immaginatevi che il vostro datore di lavoro decida di non pagarvi più dicendo che avete violato il contratto di lavoro, senza specificare in quale parte, quando e perché. Ecco, questo su YouTube è la normalità.

Per quanto riguarda Twitch invece, piattaforma di proprietà di Amazon, le regole sono ancora più stringenti. In nome del politicamente corretto è stato ad esempio vietato il tag blind playthrough, ovvero “partite alla cieca”, che consiste nel giocare per la prima volta ad un videogame senza conoscerlo, questo per non risultare offensivi verso i ciechi.

Ora, di nuovo, provate a immaginare di perdere il lavoro per banalità di questo genere senza avere alcun diritto di replica.

In generale poi tutti i divieti riguardanti l’uso di un linguaggio “violento”, “razzista” ed “offensivo” sono molto generici e molto ambigui, il che significa che ci rifà totalmente alla discrezionalità dei “moderatori” che possono decidere di volta in volta il bello e il cattivo tempo. Questo non a caso, dato che un solo richiamo per uno di questi tre divieti comporta automaticamente un ban permanente del profilo.

Tornando ai nostri parallelismi con il lavoro tradizionale, quindi, rappresenterebbe un licenziamento in tronco da parte del proprio titolare alla prima lettera di richiamo saltando a piedi pari le seguenti due.

In più ai creators dovrebbe essere riconosciuto il diritto d’autore sui propri contenuti video quando invece non è affatto così. Capita infatti che interi video vengano rimossi o demonetizzati per aver mostrato pochi istanti di un film o un programma televisivo, ma viceversa quando la televisione trasmette video presi da YouTube (senza neanche citare l’autore) oltre a non dover elargire nessun compenso al creator, quest’ultimo non ha neanche la possibilità di rivalersi del suo lavoro in alcun modo.

Come detto all’inizio quindi, l’evolversi della tecnologia e di conseguenza della società comportano l’inevitabile nascita di nuove professionalità, bisognerebbe quindi di pari passo evolvere anche le tutele legali affinché siano adatte al momento storico che si sta vivendo, è impensabile che nella nostra Nazione ci debbano essere lavoratori senza tutela in balia delle pazzie di multinazionali straniere. Soprattutto considerando che ormai questo lavoro esiste ed è riconosciuto già da più di un decennio, non certo l’altro ieri.

In ultimo, la vera insidia è che ogni mezzo di protesta valido per il “lavoratore tradizionale” perde totalmente di significato per un creator, in quanto considerando la grandezza del suo “datore di lavoro” (doveroso ricordare che parliamo di multinazionali del calibro di Google e Amazon), esse perdono completamente di ogni significato. Ne è un chiaro esempio la fallimentare iniziativa del no stream day, avvenuta lo scorso dicembre e che non ha sortito alcun cambiamento.

La storia de “la piattaforma è privata, quindi possono farci quello che vogliono” è una fregnaccia, visto che non abitiamo di certo in uno stato anarco-capitalista. A piattaforme di questo tipo non dovrebbe essere permessa una così vasta libertà “contrattuale” dal momento in cui per determinati elementi esse si trovano a rappresentare la prima fonte di sostentamento, così come dovrebbero quanto meno dare spiegazioni chiare e ogni volta che decidono di penalizzare concedendo anche la possibilità di fare un ricorso con valenza legale.

È per tutta questa serie di motivi che solo uno Stato di diritto ha il potere di ergersi a difesa dei suoi cittadini in difficoltà. Oppure l’Italia è una «Repubblica democratica fondata sul lavoro» solo quando è ora di stringere il cappio al collo degli imprenditori italiani?