Di Sergio

“Non andartene docile in quella buona notte…” è un verso di Dylan Thomas della primavera del ’51. Sono passati settant’anni. Mai come oggi queste parole rimbombano come un cupo requiem per il nuovo millennio che deluse le aspettative più futuriste ed hollywoodiane dello scorso secolo, si preannuncia ora come la macabra unione tra la distopia orwelliana e panottica con la democrazia liberista e progressista. È così che è nata la “distocrazia”: la forma di governo democratica che per sua stessa natura ammette e giustifica l’uso del controllo e della sorveglianza per salvaguardare sé stessa e lo status quo dalle minacce (o percepite come tali grazie ai medium stampa e digitale) interne ed esterne. Nella distocrazia occidentale, le forme distopiche dello stato di polizia diventano il placebo per la società consumista che sopravvive alle sue libertà fondamentali in nome della sicurezza. Non è un regime dittatoriale e nemmeno totalitario, perché non unisce e non mobilita, ma divide e comanda. È un sistema che si nutre delle elezioni e sfrutta la crisi del parlamentarismo per installare “legittimamente” governi tecnici e di larghe intese. Il capitalismo sta bene, non è mai stato meglio, ed augura a tutti una buona (e lunghissima) notte.

Cinquant’anni fa pensavamo che il futuro ci avrebbe riservato i sogni eroici di conquista dello spazio ma non siamo mai stati così lontani dalle stelle: ormai anche quello è diventato il giocattolo turistico delle multinazionali di Musk e Bezos. Blade Runner si è rivelato essere una previsione ottimistica per l’ormai “fu” 2019, perché ha immaginato un futuro dove seppur morta, la speranza di una vita eroica ed epica rinasce attraverso il replicante Roy Batty. Niente di tutto ciò è avvenuto, anzi, abbiamo trovato solo una docile fine per ogni anelito di libertà. “Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo”.

Oggi il futuro è qui e si chiama pandemia permanente: un regime di terrore costante che ha generato schiavi della propria stessa esistenza che hanno assunto la salute e il benessere a propria misura di non vita. Che succederà dopo? Quando l’anestetica di massa avrà reso tutto il mondo una stanza asettica, asciutta, priva di spigoli e confronti, chi sarà ad avere il potere? Potremo ancora definirci umani quando la cautela ci avrà atrofizzato le gambe? Quale futuro per le Nazioni di fronte alle agende globaliste di dominio assoluto del capitale? Quale futuro per gli ecosistemi della Terra di fronte alla produzione intensiva e al consumo espansivo delle risorse? Il green pass è solo l’alfiere di un nuovo ordine globale che si sta costruendo proprio in questi anni e da cui sarà difficile tornare indietro. Il vaccino è soltanto un para occhi e si tratta di una scelta fittizia che nasce della medesima paura: quella della morte.

Non dobbiamo sbagliare nemico. L’Europa non è minacciata da un virus cinese e nemmeno dai no vax o dal green pass, ma da un Occidente sempre più asservito alla logica della merce e dell’impoverimento dei rapporti sociali, dalla forma capitale, ovvero dalla disintegrazione dell’immaginario simbolico che sta sfociando nella cancellazione dell’umano in quanto tale. Questa tendenza porterà alla castrazione di qualsiasi pensiero e qualsiasi azione non-uguale al comportamento dettato dalla società dei consumi. In ballo non c’è solo un’idea politica, ma il nostro stare al mondo, le nostre stesse azioni ed emozioni. La prostituzione delle parole non è soltanto un gioco dei media, ma l’arma con cui vengono svuotate di senso le nostre vite.

È per questo che la rabbia non basta più. L’indignazione e il re-flusso digitale stanno convincendo tutti che rabbia, odio, violenza, siano soltanto opinioni. Un clic e la rabbia è sfogata, un commento sotto un post e l’odio è ridotto a materia per una legge sull’hate speech. La nostra ira non si dovrebbe soltanto poter dire, perché un’opinione non genera storia, non genera futuro, non produce nulla che valga la pena di essere raccontato. L’indignazione digitale non è cantabile: non è capace di azione e nemmeno di narrazione, è piuttosto uno stato affettivo (o gastrico) che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni. Il mondo digitale ti porta il mondo dentro casa, sei convinto di muoverti ma in realtà sei fermo come un peso morto. Serve di più, serve infuriarsi allora. Il furore è più di uno stato affettivo: è la capacità di interrompere uno stato in essere e di farne iniziare uno nuovo. Per questo è il sentimento nemico di ciò che non cambia, di ciò che si perpetua uguale a sé stesso, dello status-quo. Cosa siamo oggi, se non bestie all’ingrasso, sedate e tenute in allevamento intensivo come i campi coltivati di Matrix? Serviamo docili e mansueti, non in grado di infuriarci.

Oggi siamo il toro che campeggia nel manifesto. Il toro che non ha l’occasione di misurarsi nell’arena di una corrida: legato, menomato, de-virilizzato da una ragnatela di corde. È la nostra Italia, la nostra Europa di cui il toro è simbolo totemico per eccellenza e tradizione. Siamo noi. Una corda sulla bocca e una stretta alle gambe gli impediscono il respiro e il movimento. Ma c’è una forza indomita che fa parte del nostro spirito e a quella ci appelliamo ora che siamo spalle al muro, minacciati nella carne e nell’anima dalla peggiore delle schiavitù: quella dei mansueti, dei cauti, dei moderati, di quelli che non sperano nemmeno che qualcuno venga a liberarli. Dobbiamo fare da soli, appellarci alle forze bestiali dell’animale che portiamo dentro, infuriare come il toro che sentendo stringere le corde tende i suoi muscoli fino allo spasimo nel tentativo di strappare i vincoli che lo legano. È così che immaginiamo l’infuriare contro il morire della luce: un atto puro, istintivo, cristallino, senza fronzoli, quello di una bestia che non accetta la gabbia. La risposta arcaica ad un attacco totale, “la voglia antica” e “la mano nuova”. La risposta che replicanti come noi troveranno nel proprio profondo quando si ricorderanno, in fine, che la vita dura un fulmine, la risposta che Fremen come noi troveranno nel deserto che li circonda prima di trasformarlo in giardino. Viviamo in una cantina ma sogniamo e vogliamo lo spazio di un’Impero.

“Le regole edificano fortificazioni dietro le quali piccole menti s’innalzano al livello di satrapi”: noi non le rispetteremo! È così che vogliamo fare opposizione ai governi tecnici che ci sono e continueranno a susseguirsi, con l’energia epica e anche un po’ fantascientifica dei nostri geni. Perché quando il potere è in mano a grigi burocrati e mediocri impiegati c’è bisogno di uno sforzo di creatività: quello di immaginare l’assurdo e l’impossibile per renderlo possibile. Lo sforzo di cercare ciò che ancora non c’è: l’atto di fede di un giovane cuore. È così che faremo opposizione alla buoncostume del pensiero unico, alle agende progressiste di tinta arcobaleno, alla morte della scuola e del lavoro, all’impoverimento della socialità e alla digitalizzazione della vita. Mobilitiamo in noi ed attraverso noi quell’ira funesta che come ci canta Omero, è il principio della nostra Civiltà.