di Michele

Mettiamolo in chiaro fin da subito, i discorsi generazionali stancano in fretta e producono generalizzazioni fastidiose. La gioventù poi non ammette lezioni. Guardandoci intorno viene però una domanda: qual è il posto dei giovani? Schiacciati dalla pandemia che li ha di fatto sacrificati per salvaguardare le esistenze dei più anziani, i giovani vengono accusati di ogni cosa e allo stesso tempo caricati di qualsiasi aspettativa e di qualsiasi speranza.

Prendiamo un caso vicino a noi di questa paradossalità: l’ultimo articolo di Matteo Brandi, apparso nel numero di settembre de Il Primato Nazionale. Brandi parte da un presupposto piuttosto condivisibile, notando la natura sistemica di alcuni temi che hanno visto una buona partecipazione giovanile. L’ambientalismo di Greta Thumberg, il movimento Black lives matter, o le rivendicazioni del mondo LGBT+, fanno interamente parte di quella visione progressista e di quel sistema globalista che sono al potere già oggi. Insomma, nulla di veramente rivoluzionario.

Fin qui tutto bene. Le conclusioni che trae sono però eccessivamente moralizzanti e smobilitanti. Queste battaglie sarebbero delle mode alle quali i ragazzi partecipano «galvanizzati dal supporto dei propri beniamini milionari su TikTok e Instagram» o per «paura di essere tagliati fuori dal gruppo». Una generazione di rammolliti che allo stesso tempo dovrebbe avere il compito di salvare la situazione, perché «essere giovani dovrebbe significare porsi di traverso al sistema, mettere in discussione l’autorità e rivendicare la propria voglia di vivere fuori dagli schemi imposti».

Non solo il buon Brandi ci restituisce un pessimo ritratto della nostra generazione, ma lo schiaccia sotto il peso di un compito rivoluzionario quasi messianico, di quel «dito medio al Grande Fratello» che va a creare un doppio legame impossibile da sostenere. Da una parte avremmo la peggiore gioventù di sempre, dall’altra quella stessa gioventù dovrebbe letteralmente liberare il mondo. Questa contraddizione allontana anche da quello che potrebbe essere il messaggio positivo dell’articolo, inteso come un invito ai giovani a lottare per una bandiera diversa da quella del globalismo.

I giovani diventano così un alibi. Il modo di lavarsi la coscienza per chi sogna rivolte contro sistema ma inciampa al primo passo, per quelli che non sanno immaginare un futuro ma piangono per il presente, per quelli per cui ogni azione è una reazione. Tanti Homer Simpson che si chiedono «non può farlo qualcun altro?». E quel qualcuno sono i giovani. Quegli stessi mocciosi che odiano per una malattia dello spirito. Il progressismo non penetra nelle nuove generazioni perché queste sarebbero più manipolabili e più docili, piuttosto perché riesce ancora a declinare sé stesso al futuro. Oltre al fatto che le vecchie generazione non sembrerebbero essere poi così più immuni rispetto a certe sirene del progressismo o del globalismo.

Per quanto sia scontato da dire, non si possono colpevolizzare i giovani per un sistema di cui non sono responsabili o per non combattere battaglie che le generazioni precedenti non sono state in grado di vincere. Questa società ha ucciso tutto ciò che è giovane e perpetuato tutto ciò che è immaturo. La gioventù è vita trionfante. Oggi invece viviamo nell’inutilità dell’effimero che non si realizza mai. Se la gioventù è l’attimo che diventa eterno, l’immaturità è il monotono ticchettio delle ore che non portano a nulla.

Tornando alla domanda iniziale, ovvero qual è il posto dei giovani, verrebbe allora da rispondere semplicemente che non c’è. Anche al di là della curva demografica che vede materialmente sempre meno giovani, la gioventù è stritolata e messa al bando. La vecchiezza dello spirito la invidia e ne vorrebbe disinnescare la forza. L’immaturità della società vorrebbe che non si compisse mai, così da rimanere quell’animale desiderante che è il perfetto consumatore. Ma se la gioventù è come la vita, verrebbe da dire citando Jünger, che: «nel suo nucleo più intimo, è indistruttibile».