Di Bologna

Viviamo in una società che sembra tendere sempre più a schiacciare il pedale dell’acceleratore sul processo di de-virilizzazione del giovane bianco. Da una parte vediamo infatti come fin dalla più tenera età si voglia a trasmettere ai bambini messaggi di pace, amore, abbracci e bacini a tutto e tutti annullando il normalissimo sentimento di competizione che ogni bimbo o ragazzo cova intrinseco nel suo essere maschio (non che le fanciulle ne siano invece prive, ma oggi la riflessione è un’altra).

Dall’altro lato invece si osserva una reazione violenta e scomposta da parte di tutti quei giovani che hanno riscoperto la virilità, incanalandola in un modello sradicante e sbagliato: ecco quindi che nascono i fenomeni delle baby gang dei ridicolissimi trappers o presunti rappers che vanno ad imitare un modello maschile che non gli appartiene, ovvero quello dei ghetti afro-americani, dove manco a dirlo, in una situazione reale verrebbero quanto meno tagliati a fettine e messi sulla tavola da pranzo di qualche vero gangster.

Il progetto è quindi già tracciato: il giovane bianco non deve essere guerriero e identitario ma solo amorevole, sentimentale e prostrato quando è inserito in un normale contesto sociale o affiliato ad un modello stradaiolo esterofilo se invece inserito in branchi violenti a trazione straniera. Entrambi i modelli sono spinti da influencers, mass media e personalità di spicco compiacenti o semplicemente inconsapevoli promotori di un progetto di sradicamento che ormai colpisce tutto l’Occidente.

Esiste tuttavia un altro modello che scorre nel nostro sangue, anche se in molti casi è sopito, pronto però a riemergere qualora si intraprenda una scelta di vita contraria a quella che ci propina ogni giorno la propaganda noiosa di questo sistema.

Fin dall’alba dei tempi solo una cosa può impedire alla “tribù” di soccombere e disperdersi, alla Polis di cadere sotto l’influenza di una città avversaria o alla Nazione di finire asservita ad interessi stranieri ed è l’educazione marziale dei propri giovani.

Dalle corti dei monarchi Macedoni, dove un giovanissimo Alessandro Magno si esercitava alla lotta e alla marcia ogni giorno insieme ad altri piccoli nobili, fino ai campi educativi della gioventù Fascista, dove i giovani diventavano di fatto “figli dello Stato” ed imparavano ad essere falange e milizia fin dalla più tenera età. La storia insegna che la Potenza di un popolo si misura nella forza vitale, irruente e combattiva che viene trasmessa ai suoi figli, quindi parliamoci chiaro: ad oggi la vitalità del giovane medio Europeo è tendente allo zero assoluto, impegnato com’è a mangiare cibo spazzatura, a cullarsi in fantomatiche vicende netflixiane e ad ascoltare musica dai contenuti quantomeno discutibili.

Quando però è lo Stato stesso ad anestetizzare la gioventù, questa non deve e non può subire il proprio annullamento senza opporsi. Ecco quindi che se le istituzioni non intendono fornire al giovane bianco una preparazione marziale e guerriera egli deve pensarci da sé, riunendosi in squadre, in comunità o in Clan (se intendiamo usare un termine più arcaico ed evocativo) e praticando quanto più spesso possibile attività sportive di gruppo, meglio se direttamente collegabili al combattimento (ad esempio arti marziali, paintball o magari tiro con l’arco) in quanto, citando Jack Donovan nel suo La via degli uomini”: «[…] Aiutano a comprenderci l’uno con l’altro».

In un mondo dove tutto quello che ci circonda viene foderato da morbidi cuscini per non urtare la nostra sensibilità, dobbiamo essere noi stessi i primi a riscoprire la fatica e il dolore, abbracciandoli e imparando a conviverci.

Infilare dunque i guantoni, mettersi fronte a fronte con l’avversario e scambiarsi un cenno di saluto prima che la danza della guerra inizi, sia questo avversario sul ring o un amico in un parchetto è indubbiamente un ottimo inizio. Si tratta di un rituale antico, che sentiamo dentro di noi come un lupo in cattività sentirebbe il richiamo del Bosco. Volendo essere poetici sono rituali che ci appartengono fin da quei duelli tra semi-dei in mezzo al marasma del combattimento nella piana sotto le mura di Troia di oltre tremila anni fa, se non da prima ancora.

Lo scontro diventa il modo per scoprirci ancora uomini e vivi, scoprire se chi sta al nostro fianco è vivo allo stesso modo, degno di fiducia e onorevole. Tempra il nostro corpo e lo abitua a subire i colpi, a soffrire e a tendersi come un arco pronto a scoccare, superando di volta in volta i propri limiti.

Saper combattere diventa l’arte salvifica di una gioventù infuriata col mondo e pronta a riscoprire e difendere le proprie radici. Non ci sono più scuse, quella che si sta combattendo è una vera e propria guerra, ora sta a noi addestrarci e combatterla.