Di Rocco

Dopo oltre 70 anni di neutralità strategica, la Finlandia ha deciso di richiedere l’ingresso nella NATO. Nonostante questa neutralità, il Paese investe già il 2% del Pil per la difesa. Il ministro degli Esteri finlandese Pekka Haavisto, in audizione alla commissione Affari esteri del Parlamento europeo, ha spiegato le ragioni della scelta, maturate dalla convinzione, soprattutto nell’opinione pubblica, di doversi proteggere dopo l’invasione russa in Ucraina.

Logicamente, i vertici UE e NATO sono pronti ad “accogliere calorosamente” l’ingresso del Paese scandinavo, come anche gli USA e le Repubbliche baltiche. Anche la Francia sostiene «la scelta sovrana» di Helsinki, come comunicato dall’Eliseo al termine di una telefonata fra il presidente Emmanuel Macron e il suo omologo finlandese. Ma fino a che questa decisione non sarà ufficiale, la Finlandia non potrà essere difesa in caso di attacco russo. Tuttavia da parte della Nato ci sarà piena disponibilità a garantire la sicurezza.

Dunque, dopo l’ingresso nell’Unione Europea nel 1995, la Finlandia compie un altro passo verso il superamento dello schema di divisione in blocchi post Seconda guerra mondiale.

Di contro, il governo russo ha avvertito come un’ulteriore minaccia questa notizia, e ha annunciato che adotterà misure necessarie per la sicurezza. Proprio pochi giorni fa, nella TV russa si parlava del nuovo missile “Sarmat”, a cui si è ora aggiunto anche “Poseidon”, il siluro che le fonti russe affermano in grado di “determinare uno tsunami devastante”, capace di radere al suolo molte capitali europee nel giro di pochi minuti.

Difficile stabilire quanto possa trattarsi di propaganda o di reali intenzioni. Tutto questo ci offre una panoramica interessante e inquietante, allo stesso modo, sulla potenza e sulla velocità di questi nuovi mezzi, che possono cambiare totalmente la natura di questa guerra, in cui ci potrebbe volere un attimo per innescare la miccia che porta alla distruzione totale.

Si, perché sono passati più di tre mesi dall’inizio della guerra, e se forse le convinzioni iniziali di Putin fossero quelle di riuscire a risolvere il conflitto in poche settimane, la situazione che sembra delinearsi, dopo l’inaspettata -per la Russia- stoica resistenza ucraina e l’invio massiccio di armi da parte dell’Occidente, è quella di un conflitto perlomeno a lunga durata.

Pochi giorni fa si è celebrata in Russia la festività del 9 Maggio (festeggiamenti per la vittoria nella seconda guerra mondiale), durante la quale un imponente adunata di 11000 soldati hanno giurato alla vittoria dinanzi a Putin, nel ricordo della resistenza antinazista. Si pensava che proprio per quella data la Russia volesse sferrare un attacco decisivo. Si è già disquisito sul fatto che forse, in realtà, la NATO non abbia chissà quali interessi nel trovare accordi di pace immediati, vista la posizione irremovibile sull’invio di armi, e le cause a monte che hanno originato il conflitto. Infatti, la sensazione è che si voglia mettere il più possibile alle strette il regime russo con le sanzioni e puntando ad indebolirne ingentemente la difesa prolungando i combattimenti, sperando in un “regime change”.

Perciò, nessuno può escludere che, se la situazione dovesse mettersi male per il Cremlino, non si possa decidere per una soluzione che, come detto prima, cambierebbe le carte in tavola del conflitto in circa 120 secondi.

Quello che è certo è che la possibilità della guerra atomica è da scongiurare ed evitare in ogni modo, e che dunque UE e NATO, in questo momento, dovrebbero intavolare serie trattative di pace con il nemico russo. Ad ora, sembra strano dirlo, l’unico che sta prendendo posizioni efficaci verso la pace è Macron, che sta dialogando con la Cina e ha affermato che «Putin non va umiliato».

Posizione che non sembra convergere con quella del presidente americano Biden, che continua nella strategia di demonizzazione del nemico e sembra aver catechizzato Mario Draghi, durante la sua ultima visita negli Stati Uniti, sul ruolo di estremismo atlantista da continuare a giocare, con il Premier italiano che obbedisce senza indugi, ma che in Europa continua a contare poco o nulla.