di Enrico
“Tutti gli uomini odiano i disgraziati e io appaio come il più sventurato degli esseri viventi! Persino tu, che sei il mio creatore, mi biasimi”
Mary Shelley – Frankenstein o il moderno Prometeo
Queste sono le parole pronunciate dalla Creatura nel celeberrimo romanzo di Mary Shelley. Questa citazione racchiude il modo che il Mostro ha di vedere sé stesso, ma prima di ogni altra cosa, essa esprime il nucleo tematico del romanzo: egli è una vittima, ma è vittima non di qualcuno, bensì di un sistema, di quel sistema complesso che si chiama “umanità”. Ma facciamo un piccolo passo indietro.
Da tempo ormai, la sensazione che la tendenza al vittimismo sia un carattere di fondo della nostra società, pervade sempre più il pensiero degli uomini assennati. Ma oggi le “vittime” non sono più vittime di un atto circoscritto, sono altresì “vittime assolute”.
Se prima l’essere vittima era qualcosa di accidentale che non cambiava in nessun modo l’essenza della persona in questione (semplificando molto, uno che è vittima di una rapina, se è una persona orribile, rimane tale pur avendo subito la rapina), oggi invece l’essere vittima implica quasi per forza una sorta di intoccabilità, di bontà intrinseca. E questo porta lo status di vittima ad essere desiderabile e la “presunta vittima” a pretendere di essere riconosciuta come tale. E questo porta con sé un problema enorme: si confonde la vittima reale e concreta con la vittima presunta. Chi è davvero vittima, non ne trae motivo di orgoglio, non vuole essere riconosciuto come vittima: un genitore che perde il proprio figlio in un incidente stradale, una donna violentata o un ragazzo picchiato a sangue, si porteranno dietro per tutta la vita le loro disgrazie e quando gli torneranno in mente, non ne trarranno una bella sensazione o un motivo d’orgoglio.
La vittima immaginaria invece vuole essere riconosciuta come tale, dal momento che ne trae motivo d’orgoglio, perché ha necessità di essere riconosciuta come tale (dalla società o dalle persone che la circondano), in quanto questo status le garantirebbe subito l’accesso alla schiera dei “buoni”.
Ma da dove viene quest’idea così originale per cui “la vittima è automaticamente buona”?
Andando a scavare molto, possiamo individuare questa origine nel cosiddetto “mito del buon selvaggio”. Questa teoria trova il suo massimo esponente probabilmente in Jean-Jacques Rousseau; egli, infatti, teorizzò una condizione primordiale dell’uomo, caratterizzata dalla bontà e dall’innocenza intrinseca di quest’ultimo. Ciò che invece avrebbe corrotto l’uomo, sarebbe essenzialmente lo stare in società: come scrive Rousseau stesso ne Il contratto sociale, “l’uomo è nato libero, eppure dovunque è in catene”.
Di nuovo, l’uomo è vittima di qualcosa, ma non di qualcuno nello specifico; solo dell’esser venuto a contatto con altri uomini, che è poi lo stesso messaggio riproposto da Mary Shelley in Frankenstein. Il problema più grande però di questo “vittimismo ad oltranza” è che, se tutti siamo vittime, siamo tutti anche dei potenziali carnefici.
E non è un caso che nell’epoca delle vittime, domini incontrastato il politicamente corretto alla massima potenza. Poiché siamo tutti potenziali vittime/carnefici, secondo il politicamente corretto, non si deve operare sul singolo sopruso (e quindi sulla nascita di una vittima reale) ma stabilire in anticipo cosa non bisogna fare per evitare di produrre vittime. E quindi “questo non si deve dire” … e “questo è discriminatorio” … e chi più ne ha, più ne metta.
C’è però un possibile modo di uscire da questo tunnel di vittimismo; uscire immediatamente da quella “gara a chi è più vittima”, che da diversi anni attanaglia la nostra società.
Per concludere, un’altra risposta molto efficace all’equazione “vittima = bontà assoluta”, è quella che ha dato il comico britannico Ricky Gervais dopo le polemiche sul suo ultimo spettacolo “Supernature”, accusato di omofobia, razzismo, transfobia e via dicendo. Agli alfieri del politicamente corretto, schiumanti di rabbia, Ricky Gervais ha risposto con queste semplici, ma estremamente appropriate, parole: “Solo perché ti senti offeso, non significa che tu abbia ragione”.
Commenti recenti