Di Michele
In un post sui social, il direttore del Primato Nazionale, Adriano Scianca ha rilanciato il tema della cancel culture dandone, però, una chiave alternativa. Se i popoli europei sono “schiacciati dal peso dei millenni” tanto che si ripiegano su sé stessi e non riescono a muoversi, la cancel culture da pericolo non può diventare occasione? Lo stesso Scianca si chiede se in fondo “forse solo la cancel culture potrà salvarci”.
Scianca cita Nietzsche per declinare un confronto sano con la storia, ricordando come “la natura aristocratica agisce con innocenza e oblio”, mentre è l’ultimo uomo quello che si fa piegare dal peso della storia, colui che rimpicciolisce ogni cosa e che è portatore di una morale del risentimento, ma “il «risentimento», del resto, non è altro che un ricordo che ristagna”. Da questo angolo visuale afferma: “Ho l’impressione che ciò che impedisce all’Europa di darsi un destino non sia, come sento dire spesso, la mancanza di storia, ma il fatto di averne troppa. Non l’oblio, ma l’eccesso di memoria”. Insomma, contro alibi e fuga frettolose che vorrebbero gli europei fuori dalla storia, è la storia stessa ad essere divenuta ostacolo. Se quindi l’Europa vuole ridarsi una centralità, se vuole rientrare in quella storia da cui sente di essere uscita “deve farlo con gli occhi del bambino zarathustriano, con candore barbarico, come se vi entrasse per la prima volta”.
Insomma, non un atteggiamento conservatore perché non c’è nulla da conservare. Ma lo spirito creativo che è ancora capace di farsi storia e non solamente di subirla. In fondo, il superuomo nietzcheano strappa a morsi la serpe che lo soffoca e se ne libera ridendo. Distruggere per poi ricostruire. Sarebbe ozioso e forse controproducente citare quanto questo atteggiamento sia radicato nella nostra cultura, basterebbe già il nome di Marinetti e l’invenzione del futurismo. Ma questo atteggiamento non potrebbe rappresentare una rinuncia alla “memoria lunga” degli europei, quella stessa “memoria lunga” che è al centro del lascito – per fare un esempio – di Dominique Venner? E soprattutto cosa centra in tutto questo la cancel culture che è in fondo negazione di ciò che europeo proprio in quanto è europeo?
Probabilmente la prima questione è di più facile risposta. Ci vuole della malafede a non vedere come il nucleo del discorso sia la scelta tra un atteggiamento attivo verso la storia e uno passivo. Un bagaglio storico diventa un ingombro quando non si riesce più ad esserne all’altezza. La storia non ha valore in quanto storia, ma in quanto esempio. Anche un esempio eccessivamente idealizzato, che diventa incapace di ispirare, può schiacciare sotto il suo peso. Bisogna riscoprire una dimensione di sfida. Ecco se contro il primo rischio, quello museale, siamo forse più preparati, il secondo, quello monumentale, potrebbe nascondere qualche insidia in più. Qui può venirci in aiuto una doppia lettura del romanticismo. La prima – che ritroviamo ad esempio in Ernst Jünger – è quella negativa del romanticismo come “spazio difensivo” e come fuga in “un tempo passato che si colora del sentimento di reazione (risentimento)”. Insomma, il romanticismo come fantasticheria e finzione nella lontananza per chi è incapace di affrontare il tempo presente. Ma il romanticismo fu anche presa la di coscienza della crisi valoriale dell’Europa e allo stesso tempo la volontà del suo superamento, come ricorda Adriano Romualdi: “Quando una società si inaridisce per un crescente processo di «umanizzazione», le forze elementari dello spirito, sia quelle positive, ignee, diurne che quelle oscure, istintive, telluriche si volgono congiuntamente contro di essa”.
In questo processo di riattualizzazione di quelle “forze elementari dello spirito” citate da Romualdi, che rappresentano un modo di riappropriarsi della storia e del destino, qual è il ruolo della cancel culture? Arriviamo così alla seconda questione. Dietro le varie etichette di patriarcato, colonialismo, sessismo, razzismo e quant’altro, quello che sembra voler cancellare la cancel culture è l’Europa stessa. A ciò gli europei reagiscono o partecipandovi in un cupio dissolvi di pentimento e autoflagellazione, o difendendo quanto già dato solamente perché già dato. Insomma, in entrambi i due casi la subiscono. Proprio nel suo spirito di negazione che ci mette di fronte alla “brutale domanda: sei necessario?”, la cancel culture ci richiamerebbe ad una visione più originaria della storia. In questo senso rappresenterebbe – abusando dei versi di Hölderlin – sia il pericolo, sia “ciò che salva”. Ma questo risposta non è soddisfacente e non ci allontana abbastanza dalla nostra zona di comfort. Bisogna aggiungere dell’altro.
Una visiono solamente distruttiva e nichilistica della cancel culture potrebbe confortarci eccessivamente. Al contrario dell’adagio tolkieniano citatissimo per contestare Gli anelli del potere, per cui “il male non è in grado di creare nulla di nuovo, può solo distorcere e distruggere ciò che è stato inventato o fatto dalle forze del bene”, arrogarsi il diritto di distruggere qualcosa equivale ad avere – o almeno ambire – quelle forze creative che saranno in grado di rimpiazzarlo. Sacrificare le vestigia del passato per creare qualcosa che le superi è un’ambizione che abbiamo perso. Ecco, se la cancel culture potrà avere un effetto salvifico è quello di farci riscoprire questo spirito di conquista e di fondazione. Ovviamente, in una sfida per il futuro contro di essa, per affermare noi stessi contro ciò che ci nega. Qui, sul fronte dell’essere.
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