Di Sergio
Il titolo di quest’articolo può sembrare una supercazzola, ma non lo è. Infatti, sulle parole pronunciate ieri dal Premier Giorgia Meloni al Vinitaly di Verona, si è aperto il campo su due possibilità, entrambe – appunto – vere e possibili. Le possibilità sono due: il Made in Italy come occasione o come trappola per la scuola italiana. In mezzo c’è un mare di ignoranza e di malafede, che cercheremo di dipanare con questo articolo. Iniziamo dal principio: sono passati sette mesi dall’insediamento del governo di centrodestra guidato da Meloni, sette mesi in cui le uniche dichiarazioni sulla scuola sono state “affidate” al Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Grazie, direte voi, è il Ministro dell’Istruzione. Il problema infatti è quello che il Ministro ha detto: una serie di castronerie, trovate poliziesche ed uscite infelici una in fila all’altra. Dai lavori socialmente utili per i bulli al rinnovato impegno nell’alternanza scuola-lavoro al World Economic Forum di Davos, il governo ha dato l’idea di seguire una linea ben precisa e mercata di scuola: perbenista e liberista. Nulla di nuovo, come abbiamo già ripetuto tantissime volte.
Dopo questi sette mesi, finalmente, il premier si esprime sulla scuola e sgancia la bomba: siamo al lavoro per creare un “Liceo del Made in Italy”. Una trovata da campagna elettorale che però si inserisce nelle scelte “sovraniste” del governo dei patrioti: sembra che la sovranità passi solo dalla lotta ai “forestierismi” e da un’immigrazione controllata e specializzata. Una trovata che ci lascia alcune perplessità, in merito ai reali problemi della scuola ma soprattutto in merito al “valore morale” che la destra fa del Made in Italy. Si dice che l’uomo mette una parola all’inizio della sua ignoranza: la destra lo fa con il Made in Italy, affiggendo quest’etichetta però sui dei prodotti già contraffatti (vedere anche il ministero dello Sviluppo Economico). Stando così le cose, Made in Italy è un concetto uguale allo Ius Soli: basta che qualcosa venga prodotto sul nostro territorio per renderlo automaticamente migliore? O c’è qualcos’altro, come la qualità del lavoro, la qualità della vita dei lavoratori, la maestria e la durevolezza dell’opera, a fare la differenza? Stesso discorso per la scuola: non si può credere che mettere l’etichetta “Fabbricato in Italia” sugli istituti lì renda automaticamente migliori, per qualche strana legge divina che ci ha eletto la terra del buon vino e del ben vestire. Se andiamo a vedere il retroterra del concetto, troviamo in effetti che la destra lega l’idea del Made in Italy alle realtà “più conosciute” e pop (per non dire ai luoghi comuni) del mondo estero nei nostri confronti: mangiare, bere, vestire, musei. Il “lusso” insomma, che di solito è già in mano a multinazionali straniere e che puntualmente esportiamo mentre i nostri supermercati si riempiono di prodotti stranieri.
La Meloni però in questo “lapsus” inserisce qualcosa di buono, a differenza dei suoi collaboratori. Parla del valore del territorio e dell’identità da legare alla scuola e dell’importanza degli istituti agrari, aggiungendo la necessità di ricambio generazionale nel mondo agricolo e vinicolo. A questo punto però le nostre perplessità aumentano, perché in sette mesi di governo la direzione presa sulla scuola e sul mondo del lavoro è stato esattamente il contrario: continuare con i tagli e l’aziendalizzazione delle scuole mentre si apre all’immigrazione qualificata per avere manodopera nei cambi e nelle aziende. Politiche demografiche? Nemmeno accennate. Ecco quindi che il vero rischio è che il Made in Italy, semplicemente, non sarà più fatto dagli italiani, ma ancora più importante andrà a mascherare un progetto economico – quello globalista – che distrugge identità, cultura e territorio. Rimangono dei dubbi anche sull’ennesima settorializzazione della scuola, che da luogo di sviluppo culturale e tecnico viene declassato ad ufficio di collocamento e tutoraggio per dei settori economici che non-sono-in-mano agli italiani, per esempio il turismo, contesto sradicante e distruttore per eccellenza. Questo non è un fabbricato in Italia, ma un “consumato in Italia”. Il prodotto, come dicevamo, è contraffatto: ecco perché il governo se vuole veramente ottemperare ad un disegno identitario e rivoluzionario, dovrebbe prima di tutto ricostruire la scuola con gli studenti.
In ogni caso, il discorso sollevato è interessante, anche se rischia di essere annacquato dalla bassezza politica di tutti gli attori in campo. La sinistra dal canto suo si è subito auto-squalificata da questo dibattito, tirando fuori un becero classismo da liceali: invece di opporre dei contenuti per una ricostruzione della scuola, anche se ci sembra difficile dopo anni e anni in cui i suoi satrapi hanno occupato i posti di Viale Trastevere, ha deciso di battezzare il palo del “andateci voi a lavorare nei campi”. Dato che questa sinistra fa pena, vogliamo dare noi delle direzioni dato che il governo ci sembra confuso, schizofrenico e contenuti veri e propri oltre gli annunci da campagna elettorale permanente non ci sono mai. Prima di tutto levarsi il vizietto del Made in Italy come parolina magica che solleva l’elettorato, e puntare all’essenziale ed intervenire: tra parentesi, questo è il vero spirito italiano. Senza cambiamenti essenziali sulla sua struttura, la scuola rimarrà uno scatolone vuoto e poco importa se dentro sventolerà il tricolore o la bandiera rossa. Di quali cambiamenti essenziali parliamo? Quelli che riguardano la prospettiva e il progetto di scuola: tornare ad intervenire perché gli studenti abbiano a disposizione i migliori mezzi e le migliori strutture, coadiuvate da percorsi didattici che non escludano l’aspetto fisico e si uniscano ad un approccio “olistico” alla cultura, all’ambiente e alla natura. Dotare gli studenti degli strumenti culturali e tecnici per dominare il periodo delle transizioni energetiche, in un rinnovato spirito pionieristico che guardi al futuro non come minaccia ed esaurimento delle energie ma come un campo di nuove possibilità. Chiamare gli studenti alla partecipazione politica, consentendo alle scuole di eleggere una rappresentanza studentesca decisiva, insegnando quindi la libertà come conquista e non come capriccio. Investire sulle tecnologie ed abbattere i costi sociali del percorso di studi superiore ed universitario. Intervenire sulle gerarchie delle amministrazioni pubbliche favorendo l’ingresso dei giovani nei consigli di amministrazione di scuole, università, partecipate. Consentire il numero aperto nelle facoltà, anche quelle più specialistiche, per non rincorrere periodicamente la carenza di personale. Soprattutto, intervenire sul mondo del lavoro abbattendo la concorrenza con nazioni che non rispettano gli standard stabiliti dalla nostra Civiltà: romana, mediterranea, europea.
Considereremo vittoria quando un governo non parlerà di importare manodopera dall’estero, ma richiamerà a casa gli italiani emigrati. Ecco. Allora non avremo una scuola fabbricata in Italia, ma una scuola che fabbrica l’Italia.
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