Di Michela

Black Mirror è tornato, e come sempre tiene lo specchio davanti a una società sempre più deforme, disumanizzata, inchiodata alle sue contraddizioni. La settima stagione non fa eccezione: tra scenari futuri inquietanti e derive già in atto, la serie continua a offrire spunti preziosi. Certo, qualche tema inizia a girare un po’ a vuoto, con dinamiche già viste e soluzioni narrative che si ripetono. Ma Black Mirror, pur tra alti e bassi, resta un esercizio di critica del presente mascherato da fantascienza.

Episodio 1 – Gente comune

Il primo episodio della stagione è, senza mezzi termini, il più potente. Non ci sono supereroi. C’è solo la miseria quotidiana di una coppia della classe media che si scontra con un sistema dove la vita ha un prezzo, e la morte è un’occasione di profitto.
Amanda e Mike non sono martiri né protagonisti da copertina: sono gente comune, come milioni di altri, costretti a scegliere tra la sopravvivenza e l’umiliazione. Quando Amanda viene colpita da un tumore cerebrale, la medicina ufficiale non ha risposte. Ma ecco arrivare Rivermind, start-up che promette il miracolo: impiantare un dispositivo sintetico al posto della parte malata del cervello, collegandolo a una copia digitale della sua mente. Tutto “gratis”, ovviamente. A patto di sottoscrivere un abbonamento mensile da 300 dollari. Naturalmente il prezzo non resta fisso: aumenti, aggiornamenti, funzionalità aggiuntive – tutto in perfetto stile “freemium”. E se Amanda vuole eliminare le pubblicità che la interrompono mentre parla, lavora, vive… dovrà pagare ancora. Come succede con Spotify, ma con la differenza che stavolta non stiamo parlando di musica, ma di coscienza. Non è solo satira, è un pugno in faccia. È il nostro presente, solo leggermente accelerato. È la sanità privatizzata portata al punto di rottura, è l’umanità trasformata in abbonamento. E poi c’è il tabù per eccellenza: la morte. In questa società tecnologica, la morte non è più accettata, ma rimossa, negata, medicalizzata fino al grottesco. Il risultato? Una farsa tragica, un’illusione di eternità che puzza di disperazione – proprio come ci aveva mostrato l’episodio Torna da me (2×1), dove l’ossessione per trattenere in vita l’irrimediabile non produce amore, ma orrore.

Episodio 2 – Bête Noire

Il secondo episodio gioca su un cortocircuito geniale: Netflix stesso ci porta dentro il racconto, trasmettendo due versioni diverse dell’episodio e assegnandone una a ciascun utente con il nome del fast food scritto o Bernies o Barnies. Una semplice variazione diventa l’origine di un crollo psicologico: la protagonista è convinta di ricordare un mondo diverso da quello in cui si trova. Nessuno le crede. Tutti la trattano da pazza. È un’esperienza di gaslighting a 360 gradi: chi guarda si sente manipolato, nervoso, messo in discussione. E intanto il confine tra realtà e finzione si fa sempre più sottile. In questo incubo percettivo, non ci sono buoni o cattivi, dato che, in fondo, in tutti i mondi alternativi, i bulli sono sempre uguali. I personaggi qui sono mossi da invidia, astio, rabbia. E così la vittima può trasformarsi in carnefice, e viceversa. Come ci ricordano gli Zetazeroalfa: “Odia quanto basta, non farti consumare”. Perché chi si lascia divorare dal rancore, finisce per somigliare a ciò che detestava.

Sempre lo stesso specchio?

Questa settima stagione di Black Mirror sembra voler chiudere un cerchio, tra sequel, prequel e autocitazioni (il terzo episodio, Hotel Reverie, riprende San Junipero; il quarto è legato al film Bandersnatch; il sesto è il sequel di USS Callister).
Il messaggio però è, come sempre, chiaro: le distopie non sono più proiezioni del futuro, ma descrizioni del presente.
La disumanizzazione tecnologica, la mercificazione della vita, l’annullamento del limite sono i sintomi di un mondo che ha perso il senso del sacro, dell’identità e della comunità.

Blocco Studentesco