Di Sergio
Il 9 maggio, ogni anno, si celebra la cosiddetta “giornata della vittoria” dell’Armata Rossa contro la Germania nel 1945. Una data che, nella propaganda antifascista e post-sovietica, viene dipinta come la “liberazione dell’Europa dal nazifascismo”. In realtà, fu l’inizio di un’altra occupazione: quella dell’Europa da parte dell’ideologia marxista, dell’odio etnico e della repressione sistematica. Ralph F. Keeling, nel suo libro Un Raccolto di Sangue, pubblicato per la prima volta nel 1947 e oggi riproposto in una nuova edizione italiana, smonta pezzo per pezzo questa narrazione. Non si tratta di un’opera di parte: Keeling era un americano, non un tedesco, e il suo intento era quello di riportare la verità. Una verità che ancora oggi viene taciuta.
Non fu pace: fu vendetta
Nel nome dell’“antifascismo”, gli Alleati – e in particolare l’Unione Sovietica – trasformarono la Germania in un campo di distruzione, fame e morte. Le città vennero annientate da bombardamenti sistematici, non per motivi militari ma per fiaccare lo spirito del popolo. Dopo la resa, milioni di civili furono uccisi o ridotti in condizioni disumane. Dietro la facciata della “liberazione”, si attuò un piano preciso: quello di schiacciare la civiltà europea centrale, distruggere il cuore industriale e spirituale dell’Europa, soffocare qualsiasi possibilità di rinascita non conforme al modello sovietico. Il famigerato Piano Morgenthau – che prevedeva la deindustrializzazione forzata della Germania – fu applicato sotto altro nome (JCS 1067) fino al 1947, mentre nel frattempo la fame e la carestia mietevano milioni di vittime. I comunisti – gli stessi che oggi sfilano con i pugni chiusi per celebrare il 9 maggio – furono gli artefici della più grande deportazione etnica del secolo. Circa 15 milioni di tedeschi furono cacciati con la forza da territori abitati da secoli, come la Prussia orientale, la Slesia, i Sudeti. Le testimonianze raccolte da Keeling parlano di madri stuprate davanti ai figli, bambini morti di fame nei carri bestiame, uomini deportati in URSS come schiavi. Fu uno sterminio per fame, gelo e malattia. I “liberatori” sovietici e i regimi-fantoccio dell’Est applicarono la legge della vendetta cieca, violando ogni principio di giustizia. Il paradosso è evidente: quelli che oggi accusano altri di “totalitarismo” sono figli diretti di un potere che applicò il razzismo contro i tedeschi dell’Est, contro gli italiani d’Istria, con la benedizione e gli applausi degli antifascisti occidentali.
Contro la narrazione imposta
La retorica del 9 maggio serve ancora oggi alla sinistra, ai centri sociali e ai loro satelliti culturali per legittimarsi come eredi della “resistenza” e dei “liberatori”. Mai come quest’anno – complice la propaganda attiva che i Russi fanno sull’euronazismo – le nostre scuole e università si sono infestate di manifesti su iniziative legate al 9 maggio. Il leitmotiv è solo l’altra faccia del 25 aprile: i comunisti hanno liberato l’Europa. Solo che sul 25 aprile ormai ci sono più divisioni (filopalestinesi e filosionisti) che comunione d’interessi. Ecco quindi che si rilancia una data inequivocabilmente totalizzante, che tende a radicalizzare ancora di più il fronte del dissenso ai governi di centrodestra, all’Unione Europea e al sempre più vago “imperialismo americano”. Ma come spesso accade essere anti-occidentali aprioristicamente significa scadere nell’etnomasochismo e nella peggiore mentalità woke che in questi anni ha individuato dell’eredità storica, culturale, etica e giuridica europea il nemico da abbattere. Ovviamente, giusto per ribadire, ogni narrazione che si basa su una “liberazione” – dell’Italia come dell’Europa – è una menzogna. Chi fu veramente liberato? Non i popoli dell’Est, finiti sotto il giogo sovietico. Non il popolo tedesco, annientato in massa. Non l’Italia, condannata alla senilità politica. Non l’Europa, spezzata in due da una nuova Cortina di ferro. La “liberazione” fu, in verità, l’innesto di un dominio straniero sopra un continente sconfitto. Rifiutare questa narrazione non significa difendere il “mondo occidentale”, affetto dal morbo del consumismo e dalla malsana idea di vivere nel migliore dei mondi possibili. Significa rivendicare il diritto dei popoli nativi d’Europa a non essere annientati nel nome dell’ideologia e della vendetta. Significa riscattare il nome di europeo dall’assimilazione al gergo occidentale, ma soprattutto difenderlo da ogni tentativo di colpevolizzazione eterna. Significa denunciare il dopoguerra come un lungo stillicidio: condotta non più con le bombe, ma con l’oppressione e la tensione.
Conclusione: il 9 maggio non è il nostro giorno
Oggi chi si batte per un’Europa libera, spirituale, radicata, non può inchinarsi alla menzogna della “liberazione antifascista”. Il 9 maggio non è una festa, è una ferita. È il giorno in cui si consumò una delle più grandi ingiustizie della storia contemporanea: l’umiliazione di un intero popolo e la colonizzazione ideologica e militare del nostro continente. Non celebriamo chi ha umiliato l’Europa, la sua cultura e la sua identità. Celebriamo chi ha resistito per davvero: i ragazzi di Berlino, di Trieste, di Budapest, di Praga e di Varsavia. Ricordiamo con onore i difensori di Aquisgrana e di Roma dall’avanzata angloamericana. Non dimentichiamo chi ha detto “No” alla grande bugia della liberazione e ha rilanciato il pensiero – nonostante la cortina di ferro e la strategia della tensione – di intere generazioni di nazional-rivoluzionari europei: Adriano Romualdi, Jean Thiriart, Oswald Mosley, Giorgio Locchi, Dominique Venner. Rispettiamo chi ancora oggi lotta per un’Europa che non sia né americana né russa, ma europea. Per davvero.
Sergio Filacchioni
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