Di Marco

È il 13 marzo del 1975, un giovane ragazzo di nome Sergio Ramelli, con la passione per il calcio e l’Inter, sta ritornando a casa in Via Amadeo a Milano. Dopo aver parcheggiato il suo Ciao in una via vicina, si appresta a raggiungere la propria abitazione, ma Sergio quel giorno a casa non ci arrivò. Il diciottenne fu raggiunto da un gruppo di ragazzi appartenenti ad Avanguardia Operaia, organizzazione extra-parlamentare di matrice comunista, che armati di chiavi inglesi sferrarono diversi colpi al capo di Sergio. I violenti colpi subiti fecero perdere i sensi al giovane che fu lasciato disteso al suolo in una pozza di sangue. Le ferite riportate erano molto gravi e Sergio entrò in coma fino al 29 Aprile quando, dopo 48 giorni da quel fatidico 13 marzo, spirò.

Ma chi era Sergio Ramelli? Che cosa aveva portato queste persone a togliere la vita ad un ragazzo di diciotto anni?

Sergio Ramelli era un ragazzo normalissimo: amava giocare a pallone, seguiva con passione le partite della sua squadra preferita, inoltre, come molti altri suoi coetanei all’epoca, faceva politica. Sergio era un militante del Fronte della Gioventù, costola giovanile del Movimento Sociale, e dedicava il suo impegno a portare avanti la sua Idea, nonostante fosse un periodo ricco di tensioni. Il giovane frequentava l’Istituto Tecnico Molinari a Milano e, nonostante questo fosse un feudo rosso, Sergio non nascose mai le sue posizioni politiche. La sua volontà di non nascondersi e di non abiurare le proprie idee costò molto a Sergio, il quale fu preso di mira e fu vittima di molteplici aggressioni. Tutto ciò si svolse con il beneplacito e l’indifferenza del corpo docenti che non espresse una parola di condanna nei confronti di tali episodi di violenza.

Un episodio in modo particolare è significativo per descrivere il clima di odio e violenza che si respirava ai quei tempi, anche nell’ambito scolastico. Alla classe di Sergio il professore chiese di scrivere un tema libero, quindi ognuno avrebbe avuto la possibilità di esprimere e narrare qualsiasi vicenda che più gli stava a cuore. Sergio decise di raccontare la storia di Mazzola e Giralucci, che nel 1974 furono uccisi dalle Brigate Rosse a Padova. Il suo intento era quello di condannare le istituzioni e il mondo della politica che avevano ignorato la vicenda. Il tema di Sergio voleva dipingere la realtà del suo tempo, in cui nelle piazze si urlava uccidere un fascista non era un reato. Il suo tema, libera testimonianza di un’epoca vista dagli occhi di un ragazzo di diciotto anni, costò molto a Sergio. Il suo elaborato fu sottratto al professore e affisso in una “bacheca scolastica”, in modo da essere visibile a tutti. Pochi giorni dopo Ramelli fu prelevato di forza dalla sua classe e fatto passare dal Tribunale Popolare, una prassi istituita dai partigiani per condannare a morte i Fascisti catturati, e ripresa dai movimenti extraparlamentari di sinistra negli anni ’70 contro i loro avversari politici.

Sergio, ancora una volta, fu vittima di un episodio di violenza all’interno della propria scuola, luogo che dovrebbe rappresentare uno spazio di condivisione e di arricchimento, ma che invece si dimostrò una gabbia ideologica. Tutti questi episodi passarono sotto gli occhi distaccati dei professori che preferirono stare in silenzio e non placare la spirale di violenza che si stava innescando. Responsabili morali dell’omicidio, i professori colpirono Sergio con la loro indifferenza.

Sono passati, oramai, 45 anni dalla morte di Sergio Ramelli, ma le cose non sembrano essere cambiate più di tanto. Ancora oggi negli istituti non c’è la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee. Le scuole sono dei luoghi di indottrinamento e di chiusura ideologica. Molti professori, con la stessa indifferenza del passato, evitano di trattare alcune tematiche storiche e politiche. Un esempio sono le Foibe che dovrebbero essere parte della memoria collettiva del popolo italiano, ma che invece rappresentano un tema di divisione. Molti tendono a sminuire i crimini di cui si macchiarono i partigiani titini, o addirittura, a negare quanto avvenuto a nostri connazionali, massacrati con l’unica colpa di essere italiani.

A tal proposito sembra doveroso citare un caso avvenuto recentemente a Torino. Nel capoluogo piemontese, dopo la proposta avanzata dall’assessorato all’istruzione della Regione Piemonte di distribuire agli alunni piemontesi Foiba Rossa, fumetto di Ferrogallico dedicato alla drammatica vicenda di Norma Cossetto, per sensibilizzare gli alunni sulla tematica, alcuni professori abbiano alzato la voce per bloccare l’iniziativa. Fra questi è possibile ricordare l’insegnante Marco Meotto che ha parlato della vicenda in questi termini: «Riteniamo – hanno detto – che si possa e debba arginare questa normalizzazione e istituzionalizzazione della narrative neofascista, ergendosi a difesa del mondo della scuola, a presidio della scuola repubblicana, antifascista e democratica e per arginare il definitivo sdoganamento del fascismo. Diciamolo ovunque e a chiare lettere che il fumetto, edito da una casa editrice neofascista, deve essere immediatamente ritirato dalle scuole piemontesi».

Come se parlare dei massacri delle Foibe, ai danni della popolazione autoctona della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia, possa essere Fascista e un pericolo per la “scuola repubblicana, antifascista e democratica“.

Il clima, dunque, nelle scuole non è cambiato.

Ancora oggi gli istituti sono infarciti di indottrinamento politico e non è possibile esprimere liberamente le proprie idee e posizioni. I professori, invece che chiarire e spiegare in modo imparziale gli argomenti, tendono sempre a “viziare” i loro discorsi con la stessa faziosità che da anni inquina gli insegnamenti scolastici. La scuola, che dovrebbe essere il luogo di formazione dell’individuo, è sempre più una vuota istituzione volta a impartire un’unica narrazione, senza la possibilità di confronto.

Dalla storia di Sergio Ramelli è necessario prendere le mosse per trasformare i nostri istituti in luoghi di trasmissione di un sapere autentico e non la ripetizione di una vuota retorica autoreferenziale e dogmatica.

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