Di Michele

Sarà sicuramente capitato a chiunque di voi di imbattervi nel paradosso della tolleranza, paradosso che suona più o meno così: una società tollerante, per rimanere tale, non può tollerare gli intolleranti. È circolato parecchio anche un meme su questo paradosso, disegnato con colori sgargianti e forme stereotipate tipo illustrazione per bambini, in cui tra naziskin dal naso rosso e borghesi tremanti arriva un amabile vecchietto a salvare la situazione dicendo che “per paradossale che sembri, difendere la tolleranza richiede di non tollerare l’intolleranza”. Quel vecchietto sarebbe proprio Popper e quella frase una citazione del suo saggio La società aperta e i suoi nemici. Il più delle volte questo paradosso viene usato con evidenti intenti polemici, se non addirittura censori, per legittimare una chiusura verso ideologie e gruppi politici avversi.

Tralasciamo per un momento la questione se Popper abbia oppure no sostenuto davvero questa tesi, ovvero che per essere tolleranti bisognerebbe essere intolleranti con gli intolleranti. Ma andiamo ad analizzare più da vicino la tesi stessa. Per farlo bisogna chiedersi, per prima cosa, cosa sia un paradosso. La parola è di origine greca e significa “contro (παρά) l’opinione (δόξα)”. Per chi abbia un po’ di confidenza con la storia della filosofia non può non venire in mento il filosofo greco Zenone di Elea come colui che ha per primo ha introdotto il paradosso in filosofia. Il più celebre paradosso di Zenone è quello di Achille e la tartaruga. In breve: l’eroe omerico Achille, noto per la sua velocità, deve raggiungere una tartaruga che come tutti sanno è invece lentissima. Ma per raggiungere la tartaruga dovrà com’è ovvio raggiungere prima la metà del percorso totale, e prima di questa metà anche la metà della metà, ma anche la metà della metà della metà e così via all’infinito. Dovrà insomma superare così infinite metà di quel percorso da non riuscire a raggiungere la lentissima tartaruga. In questo modo Zenone intende invalidare da un punto di vista teoretico il movimento, così da affermare il principio del suo maestro Parmenide secondo cui tutto è essere e perciò il divenire è solo apparenza. Quindi in Zenone il paradosso ha una funzione solamente negativa, per confutare ciò che il paradosso stesso afferma, al contrario di quanto avviene nel paradosso di Popper.

Andiamo un po’ più nel dettaglio e parliamo di una norma della logica classica che viene denominata: ex falso sequitor quodlibet, o, per abbreviazione, ex falso quodlibet, ovvero “dal falso segue qualsiasi cosa”. In estrema sintesi, da una premessa contraddittoria, cioè falsa, si può inferire legittimamente qualsiasi affermazione. Si può formalizzare questa regola in questo modo: P, ~P ˫ Q. Questa regola si può dimostrare in questo modo: ipotizziamo ~Q per introduzione di negazione, poniamo P & ~P per introduzione, il che porta ad un assurdo (secondo il principio di non contraddizione), quindi se ~ Q porta ad un assurdo dobbiamo inferire ~ ~ Q, che è come dire Q (eliminazione della negazione).

Abbiamo citato di sfuggita il principio di non contraddizione, che è il principale fondamento della logica classica e prescrive che nessuna affermazione è sia vera sia falsa. Curiosamente l’affermazione parmenidea che l’Essere è e il Non-Essere non è e che quindi l’Essere non può non essere e il Non-Essere non può essere, non solo ha posto le basi dell’ontologia e quindi della metafisica, ma è una prima affermazione del principio di non contraddizione.

Se torniamo all’affermazione di Popper che per essere tolleranti bisogna essere intolleranti con gli intolleranti, appare chiaro che violi il principio di non contraddizione, perché prescrive di essere sia tolleranti che intolleranti, cioè non tolleranti. Ma ciò non basta. Infatti, abbiamo al tempo stesso un P e un ~P, dal cui come sappiamo possiamo inferire qualsiasi cosa. Quest’ultimo punto è importante, perché se è facile dimostrare, tramite il principio di non contraddizione, la falsità e la contraddizione del cosiddetto paradosso di Popper, la norma logica del ex falso quodlibet aggiunge qualcosa di più preoccupante della sola falsità, cioè l’arbitrarietà di tale paradosso. Dall’errore iniziale si crea cioè un meccanismo perverso per il quale tutto è permesso. Questo non vale solamente in termini astratti o filosofici, ma anche nella realtà di tutti giorni e ciò appare chiaro quando ci chiediamo chi sono gli intolleranti che una società tollerante non deve tollerare. Con qualche accorgimento retorico, si può facilmente dimostrare l’intolleranza di chiunque, ad esempio chi è virtuoso è intollerante perché non tollera il vizio, il buono perché non tollera il male, ma anche l’ateo perché non tollera Dio o il rivoluzionario perché non tollera l’oppressione. Quello che definisce l’intolleranza è solamente l’arbitrio della società che si crede tollerante. Questo apre a prospettive spaventose, perché attraverso questo meccanismo si può legittimare qualsiasi intolleranza e quindi qualsiasi oppressione. La qual cosa dovrebbe far riflette anche chi si pensa dalla parte dei tolleranti.

A questo punto si potrebbe obbiettare che il principio di non contraddizione afferma che una cosa non può essere sia vera che falsa allo stesso tempo e nello stesso senso (“è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto” Aristotele, Metafisica, pp.144-145, libro IV). In altre parole, uno stesso oggetto può essere, per esempio, basso se riferito ad uno più alto, ma può essere comunque alto se riferito ad uno più basso: una giraffa è di certo alta se la contrapponiamo ad un topo, ma è anche bassa in confronto ad un grattacielo. In questo modo si potrebbe pensare di dire che essere tolleranti ma intolleranti con gli intolleranti non è contro il principio di non contraddizione, perché non lo si assume secondo lo stesso rispetto, cioè nello stesso senso. Ma ciò è sbagliato perché tolleranza e intolleranza vengono assunte nello stesso senso, cioè sotto un senso politico e più precisamente delle libertà politiche. Il fatto che l’intolleranza verso gli intolleranti venga considerato un caso particolare, non elimina la contraddizione, né può giustificare leggi in merito. Oltretutto abbiamo visto come tolleranza e intolleranza siano concetti vuoti, cioè concetti che per avere senso devono avere un oggetto a cui si possa riferire la tolleranza come l’intolleranza, e che quindi si prestano a qualsiasi uso.

Ritorniamo al caso della vignetta, la tolleranza sarebbe rappresentata dalla società liberale, mentre l’intolleranza dai totalitarismi, ma niente impedirebbe di ribaltare la situazione. Un comunista potrebbe dirsi tollerante verso il proletariato perché ne difende il lavoro, mentre vedrebbe nel capitalismo una forma di intolleranza da rifiutare. Il paradosso di Popper si troverebbe così a giustificare la dittatura del proletariato, cosa che per Popper, difensore di quella che definisce società aperta, cioè la liberal-democrazia, è quantomeno imbarazzante. Non c’è quindi alcuna garanzia su chi siano effettivamente i tolleranti.

È chi detiene il potere che imporre la propria visione come quella “tollerante”, ne consegue che il paradosso di Popper sia solo una giustificazione del più forte. Ad aggravare tutta questa situazione c’è un’altra cosa non meno importante: il paradosso di Popper, squalificando l’avversario politico, in quanto l’intollerante non gode dello stesso status del tollerante, elimina la conflittualità dal confronto politico che ne è invece il fondamento (non solo della politica visto che polemos, cioè la guerra, è padre di tutte le cose, secondo quanto diceva Eraclito).

Dobbiamo ancora prendere in esame un ultimo punto, ovvero se il paradosso di Popper corrisponde davvero al pensiero di Popper. Come dicevamo all’inizio l’affermazione di Popper usata per giustificare il paradosso, ovvero: “per paradossale che sembri, difendere la tolleranza richiede di non tollerare l’intolleranza”, è tratta da La società aperta e i suoi nemici, in cui il filosofo Popper – che, va ricordato, è principalmente un epistemologo, dedito quindi alla filosofia della scienza e alla questione di come l’uomo conosce – espone le proprie dottrine politiche. Per Popper, le società si dividono in società chiuse e società aperte, alle prime vanno riferite i totalitarismi come comunismo, nazismo, fascismo, ecc., e le seconde consistono nella democrazia. In maniera un po’ poliziesca Popper ricerca gli antecedenti filosofici dei totalitarismi, oltre quelli più scontati come Marx, in filosofi come Platone ed Hegel, ovvero in due autori fondamentali per il pensiero europeo. L’enunciato di Popper, che abbiamo già citato, secondo cui “per paradossale che sembri, difendere la tolleranza richiede di non tollerare l’intolleranza”, viene estrapolato dal capitolo VII del primo volume, in cui il filosofo austriaco fa i conti proprio con Platone. In una nota al testo Popper sostiene che “la tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi”. Ciò appare grossomodo in linea con quanto afferma il paradosso, ma il testo prosegue: “in questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto il controllo dell’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni. Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso dei pugni o delle pistole”. La faccenda si complica, perché da come emerge dal testo le opinioni intolleranti sono da tollerare, o meglio non si deve contrastarle con la forza o con la legge, ma con il ricorso al pensiero. Altro caso è quando le opinioni intolleranti portano ad atti intolleranti, questi ultimi possono e devono essere soppressi anche attraverso la forza. Ciò introduce una distinzione che ha un suo valore, perché è punibile l’atto e non l’opinione, ma che presenta alcune fragilità. Ad esempio, la parola, soprattutto la parola espressa in pubblico, è un atto o un’opinione? Essendo la parola una forma di argomentazione parrebbe che essa sia ancora un’opinione, nonostante ciò a riguardo del cosiddetto hate speech, o discorso d’odio, viene spesso considerato già di per sé un atto. La razionalità introduce un altro problema, quando vi sia chi pretende di negarla agli altri solamente perché non la trova confacente alle proprie opinioni o ai propri isterismi morali. La razionalità non può neppure garantire se un enunciato sia effettivamente vero o falso, giusto o sbagliato. Infatti, filosoficamente per razionalità non si intende altro che lo svolgimento logico di premesse già date, le quali però sono arbitrarie. Si potrebbe avere un enunciato giusto razionalmente, cioè svolto correttamente, ma sbagliato in quanto deriva da premesse sbagliate.

Non è un caso se queste considerazioni di Popper vengano fuori dal confronto con Platone e in particolar modo con il suo dialogo politico più noto: La repubblica. Per Popper, il paradosso della tolleranza sarebbe in qualche modo implicato da quello della libertà che ritrova anche in Platone: “il cosiddetto paradosso della libertà è l’argomento per cui la libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare a un’enorme restrizione, perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti”. Così come una libertà incontrollata porterebbe all’oppressione, allo stesso modo una tolleranza illimitata porterebbe all’intolleranza. Non è un caso, dicevamo, che a questo punto salti fuori Platone, perché Platone come tutti i pensatori dell’antichità, è consapevole che la democrazia porta inesorabilmente alla dittatura, secondo una legge che gli antichi chiamavano anaciclosi, ogni forma di governo è soggetta ad una degenerazione: la monarchia si trasforma in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia, la democrazia in oclocrazia o demagogia, e quindi di nuovo alla monarchia o direttamente alla tirannide, riprendendo lo stesso ciclo. Se prendiamo bene in esame il paradosso della tolleranza, sia che gli intolleranti vengano tolleranti sia che non vengano tollerati, la tolleranza alla base della democrazia viene meno. Per questo motivo gli antichi diffidavano tanto dalla democrazia. Sempre seguendo gli antichi, il solo modo per sfuggire a questa legge inesorabile della anaciclosi è la compresenza delle tre diverse forme di governo, realizzato ad esempio a Roma dove i consoli rappresentavano il potere monarchico, il senato quello aristocratico, i tribuni e i concili della plebe quello democratico.