Di Elena

Roma è sulla bocca di tutti, da secoli. Ha segnato la storia, partorito miti ed è diventata leggenda essa stessa. Non è un segreto, infatti, che abbia contribuito a forgiare un nuovo tipo di uomo, sulle ceneri della cultura ellenistica. Grazie al suo fascino e la sua storia millenaria, la città eterna ha ispirato e continua ad ispirare intere generazioni di poeti, ad esempio Carducci ne scrisse: 

Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante: accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce 

Tanti parlano di Roma, la descrivono, la ammirano, cercano di coglierne il fascino misterioso e accattivante, ma forse questo difficile compito può essere portato a termine solo da chi a Roma ci è nato e cresciuto. C’è infatti, un poeta nato a Roma nel 1791 che forse più di molti altri è stato capace di descrivere al meglio il microcosmo romano. La città diventa bersaglio di satira e i personaggi che la abitano diventano protagonisti di sonetti taglienti ed ironici. Per la prima volta, è il popolo a raccontare sé stesso. Stiamo parlo di Gioachino Belli e dei suoi ‘’Sonetti Romaneschi’’, dove si racconta un viaggio: il viaggio nella Roma popolare con i suoi pregi ed i suoi difetti.

Belli dipinge la plebe romana nella sua semplicità. I ‘’Sonetti romaneschi’’ sono infatti, un affresco della mentalità popolare del suo tempo: furba, egocentrica, superstiziosa e legata doppio filo con la morale ecclesiastica in declino. Non possiamo non considerarlo un esempio prematuro, ma ottimamente riuscito di verismo. Non c’è nessun narratore saccente e distaccato a parlare, ma il popolo stesso che vive la quotidianità.

Inevitabile dunque utilizzare la lingua del popolo, il dialetto. È solo grazie questa scelta stilistica che si è potuta cogliere a pieno l’essenza stessa di una città che non è solo storia e cultura ma anche vita vissuta. Attraverso un uso sfrontato dell’umorismo ci racconta un mondo parallelo a quello narrato dalla cultura ufficiale, infatti ci descrive la filosofia di vita della Roma del suo tempo. 

Gioachino Belli ci parla del tramonto della Roma papalina: la corruzione, i vizi e la miseria, insomma, tutta la polvere che la Chiesa tentava di nascondere sotto al tappeto; anche se il suo atteggiamento verso il papato muterà con il tempo, un po’ per problemi economici un po’ per fedeltà alla tradizione e quindi con poca inclinazione al cambiamento. La sua originalità colpisce anche all’estero dei maestri del calibro di Gogol’

La sua satira fu sicuramente politicamente scorretta e alquanto pungente in quanto toccò quelle note dolenti e quegli aspetti che difficilmente si prestavano ad essere oggetto di una poesia alta e raffinata. Non a caso, fu proprio lui a lasciarci traccia di un particolare personaggio poco piacevole ma molto conosciuto nella Roma papalina del primo ottocento: Mastro Titta.

Per chi non lo conoscesse, Mastro Titta era un verniciatore e riparatore di ombrelli, ma non fu particolarmente noto per questo. Egli infatti era noto come il Boia o meglio, er boia de Roma. Belli gli dedica qualche sonetto e ce lo descrive ironicamente come uno che ‘’cura er male der dolor de testa’’. È anche grazie a queste descrizioni che rendevano il personaggio un po’ goffo che Aldo Fabrizi ha potuto, poi, interpretarlo rendendolo protagonista in ‘’Rugantino’’ dove il boia ci appare addirittura simpatico e accomodante e non freddo esecutore di ordini superiori pe’ ttre cquadrini.

Le poesie di Belli fanno inevitabilmente sorridere, un po’ perché il dialetto romano si presta al riso e un po’ perché le espressioni utilizzate dall’autore, col tempo, sono diventate veri e propri proverbi in quanto sono riuscite e riescono tuttora a centrare lo spirito di una città che, come Belli più volte sottolinea attraverso i suoi testi, non è solo storia e cultura. È fuori dubbio che l’autore abbia dato il via alla poesia in romanesco, infatti dopo di lui altri autori provarono a cimentarsi in questa pratica, basti pensare a Trilussa. Nel novecento poi, sempre su questa strada, cantati come Gabriella Ferri riuscirono a portare il romanesco in televisione, dove il grande pubblico ebbe modo di conoscere un po’ più da vicino uno spirito di Roma differente dal suo essere un museo a cielo aperto. 

Se Gioachino Belli si trovasse a descrive la Roma di oggi con le sue buche e con i suoi secchi dell’immondizia sempre stracolmi, probabilmente non si sentirebbe poi così tanto lontano dalla Roma dei suoi anni. Di certo la censura del politicamente scorretto non lo spaventerebbe, essendo una minaccia che anche lui conobbe bene. Proprio per questo tanti personaggi descritti da lui sembra quasi di conoscerli ancora oggi, ad esempio oltre ai tanti matti eccentrici troviamo anche aristocratici e cardinali dalla mano lesta e con una buona inclinazione a soddisfare i propri appetiti sessuali.

La saggezza popolare da sempre, inchioda e descrive questi personaggi di bassa leva con epiteti taglienti e a volte poco signorili. Ancora oggi si scherza e si ironizza come era solito fare lui sulla classe dirigente, che sicuramente non brilla per coerenza ed affidabilità. Un piccolo passo tratto da uno dei suoi sonetti del 1834 sembra scritto pensando a ciò che viviamo noi oggi: politici (gente di Chiesa nel suo caso) che come topi non hanno timore a cambiar bandiera e piegare la testa a comando per i propri interessi.

[..]sorcetti attorno a cquer cassone

s’affollaveno a ddí: “Ffamo un po’ ppresto’’

quant’ecchete da un búscio essce un zorcone

che strilla: “Abbemus Divoríno Sesto’’.

E li sorci deggiú: “Vviva er padrone!’’.