Di Jen

L’espressione maternità istituzionale, in riferimento alle donne che hanno avuto un ruolo atipicamente attivo nello scacchiere politico dell’Impero Romano, mette in crisi tutte quelle teorie inconsulte che vogliono in tutti i modi demonizzare l’essere madri. L’esempio massimo che si può citare in questo contesto è Giulia Domna, una siriaca nativa di Emesa e moglie dell’imperatore Settimio Severo. Ella ha saputo coniugare in sé i tratti mutuati dal suo costume orientale e quelli tipici del mos romano.

Le virtù in cui primeggia sono quelle strettamente legate al suo ruolo di madre sia sotto il punto di vista biologico che sotto quello universale: la matrona imperiale non è solo madre degli Augusti designati alla porpora imperiale Caracalla e Geta ma anche, vista la sua titolatura che non ha eguali nella storia precedente, dei tre elementi costitutivi dello Stato: gli accampamenti, il senato e la patria.

Domna, al di là degli onori riconosciutele, ha fatto della sua maternità un elemento chiave per la risoluzione di quelle forze centripete che, alla morte del marito, attanagliavano l’impero. Per comprendere come sia stata un’alleata delle istituzioni romane è necessario far riferimento all’episodio in cui i figli, incompatibili caratterialmente, volevano dividere i territori dello Stato in due, rifiutando quindi in maniera assoluta quella diarchia che il padre aveva posto in essere. In questo contesto l’imperatrice è intervenuta con un apologo riscontrabile in tutte le testimonianze letterarie coeve facendo corrispondere per sineddoche la spartizione dell’impero alla dissoluzione del suo corpo.

Se i due fratelli avessero tracciato la linea di confine nel mare del Ponto lei sarebbe dovuta morire poiché non potevano spartirsi la madre da viva ma soltanto le ceneri del corpo morto. Un episodio che, nonostante non possa essere preso per vero con certezza anche a causa del fatto che richiama la tragedia greca di Etocle e Polinice, testimonia il preminente ruolo politico di doma nella Roma del III secolo d.C.

Questo specchietto di storia dovrebbe essere presentato anche a quelle femministe che, nel corso degli anni, non hanno fatto altro che demonizzare la maternità associandola quasi ad un concetto di schiavitù nei confronti dei partner e dei nascituri stessi. Essere madri significa sempre più spesso, nell’ottica di chi pensa di battersi per i diritti delle donne dimenticandosi delle prerogative tipicamente femminili, rinunciare a qualcosa.

L’importanza della figura femminile sembra sminuirsi al tal punto da rendere necessarie pagliacciate nelle piazze che inneggiano all’aborto con slogan ben lontani dal difendere la femminilità ma che promuovono un accostamento della natura femminile alla pura libidine.

L’essere madri, invece, come si è visto dalla storia di Domna può avere dei risvolti eccezionali quando l’intimo rapporto di protezione, sostegno e controllo che si instaura con i figli arriva a coinvolgere per sineddoche aspetti diversi della società. È così che la maternità non deve essere propagandata come un fattore penalizzante, bensì come un espediente per realizzarsi secondo delle prerogative tipicamente femminili.