Di Sergio

«Come amo tutto questo. Che dio mi aiuti, lo amo più della mia stessa vita».

Non è la battuta di una commedia d’amore, ma quella del film “Patton – Generale d’acciaio”, del 1970. La scena è celebre: il generale americano pronuncia questa frase mentre passeggia nel campo di battaglia a scontro finito tra cadaveri mutilati, carri armati bruciati, terra sventrata. Insomma nel bel mezzo dello scempio della guerra. Cosa spinge un uomo ad amare tutto questo? È la domanda con cui James Hillman inizia la sua indagine sulla guerra, il tabù dei tabù, in un libro che è intitolato appunto “Un terribile amore per la guerra”. È solo una questione d’irrazionalità umana, di non-sense o di interesse economico/politico a spingere l’uomo alla guerra? O c’è di più che attira un essere umano nei cataclismi della storia? A fare da eco ai quesiti lanciati dallo psicologo americano c’è il titolo di questo libro: “Viva la morte mia!”, un grido di risposta provocatorio che sembra già contenere in sé la soluzione. Viva la morte mia è il grido del Mercenario di Lucera che tutti quanti conosciamo e questo libro parla di loro – dei mercenari – in un modo che non siamo abituati a conoscere.

Per tutti, oggi, mercenario è una parola prettamente negativa associata ad una persona vile, voltagabbana, avida, disposta a tutto pur di guadagnare il bottino. Mercenario insomma è l’antinomico dell’eroe appassionato senza macchia e senza inganni. Purtroppo questa, come molte altre opinioni generiche, è figlia di uno sguardo esterno, di chi guarda da fuori e giudica. Un’opinione sui generis su cui questo libro cerca di intervenire. Partiamo quindi dalle parole: Mercenario significa “chi si presta per mercede” – la merce non è ciò che ottiene ma lui stesso. Soldato, parola meno dannata, è invece chi è letteralmente “al soldo”. Vediamo già come cambia la percezione. Ma andiamo oltre il fatto economico. Infatti, nessun mercenario o soldato che sia è mai tornato ricco dalla guerra, o se mai lo fosse diventato non ha vissuto troppo a lungo per godersela. Nessun soldato è mai diventato ricco con la guerra. Se proprio vogliamo prendercela con qualcuno dovremmo guardare non tanto ai mastini della guerra ma ai mercanti della guerra, gli speculatori e i trafficanti che dalle lotte armate – comunque vada – traggono sempre maggiori capitali.  Chi va in guerra non lo fa per soldi, come può una passione tanto elementare essere spiegata solo come una logica di guadagno? Cosa può la moneta di fronte agli strazi e le ferite nel corpo e nell’anima? Anche i fanti sul Carso riscuotevano uno stipendio, gli stessi legionari romani esigevano un salario (il pagamento in sale) e un pezzo di terra. Viene forse meno l’importanza della loro battaglie, coraggio e onore? Certamente no. Ma già un piccolo giudizio ipocrita ce la siamo levato: la differenza tra soldato e mercenario è labile quanto lo è quella tra acqua dolce e salata.

Da cosa deriva questa schizofrenia riguardo al mestiere delle armi?  Dal secolo dei lumi e della rivoluzione francese. Infatti, è solo nel 1793 che si ha la prima leva di massa obbligatoria della storia. Caduti i confini sociali in nome dell’uguaglianza, tutti sono egualmente arruolabili: vili e coraggiosi, deboli e forti. Il cittadino universale è la carne da macello perfetta. Si inizia così con la guerra di massa che trasmigrerà la guerra da evento eminentemente qualitativo e per pochi, ristretto a spazi ben delimitati, ad un evento quantitativo per tutti e che invaderà tutti gli spazi. Un tipo di guerra che troverà le sue massime espressioni nella Prima e Seconda guerra mondiale dove la tendenza massificante si unirà allo scatenamento dei mezzi tecnici e di produzione. La guerra-macchina per l’uomo-macchina… Perfino nell’antica Roma, dove la guerra era una sfera centrale, il suo spazio era delimitato: c’era la città e il campo di Marte, c’era lo spazio di conquista e quello in cui era vietato entrare in armi. Oggi lo spazio della guerra ha invaso tutto: campagne, città, quartieri, mass-media perfino lo spazio con la corsa ai satelliti. Non ci sono più gli eserciti a fronteggiarsi fuori le mura, ma la tempesta si abbatte su tutto, si mira non alla vittoria ma all’annientamento totale. È una guerra senza limite e senza campioni, come gli Orazi e i Curiazi che si fanno avanti per i rispettivi popoli, senza rispetto per l’avversario vinto, che nella società dell’opinione pubblica deve essere demonizzato per giustificare l’orrore necessario ad abbatterlo.

L’ipocrisia è tutta qui. Neghiamo la guerra, la rimuoviamo dal nostro orizzonte, la demonizziamo e non siamo più in grado di darle un volto e un limite, ed ecco che quindi torna a noi senza volto e senza limite portando con sé le fiamme di Dresda e Nagasaki. Una rimozione che dal 1945 in poi è stata chirurgica sulle tre nazioni sconfitte e che non ha precedenti nella storia dell’umanità: dopo la vittoria il giudizio sui vinti, dopo la disfatta l’annientamento dello spirito degli sconfitti. Ai giapponesi furono tolte le spade. Agli italiani fu insegnato il complesso del traditore. Ai tedeschi fu scaricata ogni tipo di colpa dall’alba dei tempi ai giorni nostri. Un’opera di demilitarizzazione sistematica e pianificata con il solo obiettivo non solo di non far più riprendere le armi a questi tre popoli, ma instillargli una pace mortifera che non avrebbe più prodotto uomini in grado di imbracciarle; ora siamo arrivati al più: nessuno più vorrebbe impugnarle. Lo abbiamo scritto perfino in costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa”. Un concetto che potrebbe anche suonare bene se fosse “Non prenderemo le armi per primi ma le deporremo solo per secondi”, ma che così messa risulta un atto dissacrante dato che non spiega quando – invece – la guerra è giusta, quando abbiamo il diritto e il dovere alla guerra. Per un romano sarebbe stato impensabile separare la guerra dal diritto, ecco perché quell’articolo costituzionale sembra quasi una stregoneria contro la nostra civiltà piuttosto che un’enunciazione di pace. Abbiamo allontanato la guerra dalla sfera dello stato e della legge per poi allevare generazioni di leva che hanno sparato a salve le loro cartucce. Abbiamo accettato l’ipocrisia della guerra di difesa, che per inciso non è mai esistita. Ogni guerra è sempre un atto di offesa diceva qualcuno, e in fondo è la verità. Chi stabilisce quindi nel grigio lasciato dalla costituzione, cos’è una guerra giusta e una sbagliata? Ovviamente non noi, ma potete provare a chiederlo ai cittadini di Belgrado e Damasco.

Quindi eccoci ai mercenari, quelli che mettono alla mercè il proprio corpo. Un mestiere quello delle armi antico quasi quanto l’altro… più celebre. Se ci pensiamo sia un mercenario che una prostituta vendono il proprio corpo e la propria natura, l’eros e il thanathos. Due mestieri antichi come il mondo. Il mercenario quindi è colui che liberamente sceglie la via della guerra, spesso con delle idee ma spesso anche solo con la voglia di lottare, di avventurarsi, di vivere pericolosamente. È una vocazione, come quella del medico chirurgo o del musicista. Platone diceva che scopo di tutti gli uomini è arrivare alla conoscenza: anche la guerra è una di quelle vie che portano alla verità.  Perché non ci sbigottiamo se uno vuole tagliuzzare un corpo ma ci indigniamo se qualcuno vuole combattere e basta? Il mercenario è una forma più genuina di guerra, fatta per pochi elementi con una vocazione guerriera che si fanno avanti volontariamente quando tutti gli altri sono solo obbligati. Escono dalla massa come gli Arditi sul Piave, o la Compagnia della Morte al tempo dei comuni, come le bande nere del Gran Diavolo o le divisioni di fedelissimi che difesero Berlino fino all’ultimo respiro. Ecco che quindi il mercenariato esce dallo schema preconfezionato di Hollywood per costituirsi come uno, o addirittura il più antico ordine cavalleresco mai esistito. Ad accumunare attraverso i secoli queste bande l’idea che la vita non è conservarsi ma lottare. Oggi più che mai quindi quest’implacabile e terribile sfida ci impone di conoscere gli uomini che hanno amato la guerra, per ridargli dignità e rispetto, e ridare così dignità e rispetto alla guerra. Solo così anche l’inumanità della guerra potrà tornare ad avere un senso, quando smetteremo di giudicare e faremo mettere seduti alla tavola rotonda della civiltà anche i guerrieri.