di Bianca

Fra gli innumerevoli ambiti invasi e corrotti dal consumismo, quello dell’industria della moda rappresenta sicuramente uno di quelli che ci toccano più da vicino. Considerando il ruolo sempre più essenziale che svolgono i social nella vita di tutti i giorni, e vedendo quanto l’apparenza sia determinante in un mondo in cui tutto deve essere condivisibile, estetico e instagrammabile, non poteva che essere altrimenti. Quelle tendenze che sembravano interessare soltanto la moda, e che hanno contraddistinto i cambiamenti di stile nel corso della storia, oggi vengono applicate anche e soprattutto nelle ideologie dei singoli individui, in cui un argomento fa “hype” non per via della sua importanza ma a seconda di quante persone ne parlano. E oggi più che mai anche le scelte nella moda vanno a rappresentare uno schieramento ideologico.

Dalle due storiche stagioni autunno/inverno e primavera/estate, quindi con due sole uscite di prodotti durante l’anno, si è passati a più del doppio delle stagioni, scandite da lanci periodici di quantità esorbitanti di nuovi arrivi per mantenere alta e costante l’attenzione sulle ultime tendenze. Un ricambio continuo che ha portato alla nascita e alla diffusione del termine fast fashion per indicare, di fatto, ogni punto vendita che si adatta a questa corsa folle.

Tanto che si parla delle cosiddette micro-stagioni, cioè di quelle selezioni di capi in uscita per il Black Friday, Natale, Capodanno, San Valentino, per i singoli cambi di stagione e per il rientro a scuola e a lavoro; con tanto dei relativi codici sconto, che già ci perseguitano a ogni carrellata di nuovi arrivi o ai saldi di fine stagione. Capi d’abbigliamento a scadenza, mirati e promossi per determinati periodi dell’anno, nati per soddisfare ed essere indossati per periodi limitati, per poi essere sostituiti alla stagione dell’anno dopo.

Anche la realtà italiana, che una volta anche nel settore della moda si distingueva per i negozi locali con strette cerchie di clienti, si sta inesorabilmente adattando ai nuovi ritmi della moda consumistica. Il fascino, l’eleganza e l’identità che la moda italiana insegnava al resto del mondo è ormai conosciuta solo per marche, e ogni negozio nostrano si è attrezzato di vetrina social sempre aggiornata su Instagram, con la disponibilità di spedizione in tutta Italia e non solo. 

Il che in sé non costituirebbe un problema: i tempi cambiano e il settore dell’abbigliamento di conseguenza, come d’altronde la moda ha sempre fatto nel corso della storia. I social portano inevitabilmente a raggiungere un maggior numero di persone (aka potenziali clienti), oltre a essere un modo facile, veloce, efficace ed economico per promuovere il proprio brand. 

Il fatto è che la moda italiana sta diventando schiava delle abitudini consumistiche oltreoceano. Non solo una tassazione assurda ha costretto le nostre aziende a spostarsi all’estero per costruire nuove sedi più economicamente sostenibili; non solo i titoli dell’insuperabile moda italiana sono stati venduti ai migliori offerenti stranieri. Ma alle storiche piccole-medie realtà italiane viene imposto di stare al passo con i colossi multinazionali statunitensi, che sia per l’alimentazione, la produzione in generale o per l’abbigliamento, appunto. 

Sono stati i frenetici ritmi di produzione industriale made in USA con prodotti made in China a permettere quell’alternarsi frenetico di stagioni; ritmi insostenibili per le marche nostrane, se non con l’acquisto di lotti non made in Italy (ma spesso e volentieri spacciati per tali) con quantità enormi di capi da svendere quanto prima nelle settimane a seguire, proponendo le nuove uscite a cadenza mensile o bisettimanale, se non addirittura settimanale. Il tutto per stare al passo con una concorrenza sempre più feroce, essendo i prodotti in primis tutti uguali per il dominio delle tendenze, e a prezzi stracciati per quella battaglia dei prezzi combattuta a colpi di codici sconto dedicati e ribassi della nuova stagione. 

Di conseguenza, i capi d’abbigliamento non sono più pensati “per durare”. Primo, ovviamente, per la qualità dei materiali, molto meno resistenti rispetto ai tessuti dei vestiti di solo venti o trent’anni fa. Secondo, perché la portabilità è dettata dalla tendenza e non dall’usura o dal cambio di taglia: quello che andava la primavera scorsa e che si vedeva indossato a ogni angolo delle strade quest’anno è out e inservibile. Ormai non esiste più nessun capo che possa “sopravvivere” per più di due stagioni, o che addirittura venga proposto per due stagioni di fila. E i prezzi irrisori rendono poi la merce (anche acquistata di recente) del tutto sostituibile con quella presente nei nuovi arrivi del mese, che vengono acquistati non per utilità ma per rimanere in linea con le mode. 

Il ritorno della moda anni 90 e dei primi anni del 2000, preceduta qualche anno fa dalle tendenze degli anni 80, è stato accolto con entusiasmo dai compratori di tutte le età, specie le divisioni più “alternative” suddivise nei diversi stili aesthetic. Non fanno altro che dimostrare, però, quanto il settore della moda ad oggi non abbia più nulla da offrire, e che sia succube non solo delle sue tendenze, ma anche di quelle di altri settori esterni. Non è un caso, infatti, che il boom della moda anni 80 sia cresciuto di pari passo con la serie-fenomeno Stranger Things, ambientata in quel periodo. O che la diffusione a macchia d’olio dello stile goth abbia seguito a ruota il successo della serie Netflix Mercoledì. Uno stile che tra l’altro, manco a dirlo, del goth ha ben poco, se non i giusti riferimenti per incontrare gli standard piatti e anonimi dei cliente medio.

Ma le tendenze, come anticipato prima, come dominano la moda dettano legge anche sulle ideologie; com’è comunque già risaputo e ampiamente dimostrato. Negli ultimi anni va in voga l’abbigliamento “etico”, che si dichiara sostenibile e rispettoso dell’ambiente; atto a evitare sprechi, l’impiego di materiali sintetici o di origine animale nella produzione, emissioni eccessive nel trasporto eccetera. Intento di per sé nobile, che potrebbe anche portare a una svolta nella modalità di scelta degli italiani negli acquisti, con una maggiore preferenza dei prodotti made in Italy

Ma in realtà per conquistare i cuori delle buone anime sensibili all’ambiente non serve impegnarsi davvero e investire di più in risorse alternative; basta infatti saper cavalcare bene il trend della sostenibilità con un bel marketing tattico piazzato a dovere. È il cosiddetto “greenwashing“, cioè quell’ambientalismo di facciata che decine e decine di aziende hanno adottato per vendere. E ce l’hanno fatta non con furbe politiche di occultamento dei mezzi e delle risorse di produzione, ma con qualche etichetta verde con la scritta eco-friendly piazzata qua e là, un paio di cambiamenti nel design e l’affermazione di aver ridotto le emissione di CO2 nelle newsletter.

Quei marchi che promuovono sostenibilità e attenzione agli sprechi, poi, sono gli stessi che costruiscono i propri impianti di produzione in Paesi in via di sviluppo, o comunque con politiche inesistenti per la tutela del lavoro. Com’è successo con il colosso Shein, per esempio; conosciuto fra i giovanissimi per i suoi prezzi stracciati, con un fatturato che si prevede superare i 65 miliardi di dollari entro il 2025, accusato di recente di sfruttamento, paghe da fame e lavoro minorile. 

Una svolta identitaria nell’abbigliamento, quindi, non è solo per annullare contratti di scambio commerciale con multinazionali che rispecchiano un’idea di lavoro schiavistica e sfruttatrice, su cui in Italia purtroppo si è sulla buona strada, già a partire dal PCTO nelle scuole e dai tirocini non retribuiti. E non è nemmeno (soltanto) per sviluppare politiche di produzione sostenibili e meno costose, che non prevedano spedizioni oltreoceano di merce da rivendere nel nostro territorio nazionale come se non si avessero le capacità di fare altrettanto e meglio.

Ma perché l’origine e la distribuzione della moda, così come la lingua, così come l’organizzazione della società, così come la distribuzione della sovranità dei territori, è una manifestazione onnipresente e innegabile della nostra identità nazionale. Il che non significa necessariamente rivolgersi solo ed esclusivamente a marche italiane; ma significa semplicemente fare delle scelte, esattamente come le facciamo tutti i giorni in coerenza con le idee che scegliamo di seguire.