di Enrico

Il 9 maggio 1921, al Teatro Valle di Roma, successe un fatto inaspettato. Andava in scena quella sera la prima assoluta di “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. Una volta conclusosi lo spettacolo, il pubblico si divise, tra gli ammiratori che applaudivano entusiasti e i detrattori che fischiavano e insultavano. E gli uomini delle due “fazioni” quasi vennero alle mani.

Oggi, ad oltre cent’anni di distanza, esce un film che è altrettanto divisivo. Ma la divisione qui non è frutto dell’eccessiva innovazione artistica portata dall’autore (lungi, infatti, dal sottoscritto voler paragonare Pirandello con la regista di Barbie, Greta Gerwig), bensì si va ad inserire in divisioni preesistenti: femminismo (esasperato) ed antifemminismo e via secondo il solito copione al quale ormai siamo abituati.

Anche la critica è molto divisa e, se escludiamo i critici più di parte che hanno esaltato o stroncato il film esclusivamente per i messaggi ideologici sopracitati, si può certamente parlare di questo film come di un fenomeno nuovo (indipendentemente da come la si pensi in merito).

A dire la verità, un aspetto del “fenomeno Barbie” del tutto incontestabile c’è: questo film è il più grande esempio, almeno fino ad ora, di come lo spettacolo prevale sull’arte. L’abbiamo detto già nel titolo dell’articolo: è il film perfetto per la società dello spettacolo.

Ma cosa vuol dire questo nel concreto? Proviamo a capirci meglio.

Secondo le parole del critico statunitense Johnny Oleksinski del New York Post “la confezione di Barbie è molto più divertente del noioso giocattolo all’interno della scatola”.

In altre parole, si è deciso di investire più sull’impacchettamento, al fine di mascherare la scarsa qualità del regalo.

E questa è molto di più dell’opinione di un critico, ma un fatto provato da numeri reali: Barbie è, infatti, forse il primo film nella storia del cinema in cui il budget per la promozione e il marketing (150 milioni di dollari) eguaglia e addirittura supera il budget per la realizzazione stessa della pellicola (145 milioni di dollari). In breve, è un film fondato sul marketing.

Vi è un ulteriore elemento che dimostra la sconfitta dell’arte e della narrazione e il trionfo dello spettacolo, ovvero il cast. Premettendo che questa non è una critica alla Robbie e a Gosling, ma piuttosto al modo in cui la regista li ha “utilizzati”. Prediligendo il fattore estetico, la Gerwig ha impiegato due attori di grande calibro per un film dallo scarso contenuto e dalla trama mediocre e confusa. Volendo fare un paragone provocatorio e al limite del surreale, è come possedere un lanciarazzi e volerlo utilizzare per uccidere le formiche.

L’unico momento “elevato” del film è un tentativo maldestro di citare Matrix, quando una delle Barbie emarginate pone a Barbie protagonista il dilemma se tornare alla vita di prima o se andare alla scoperta del mondo reale, invitandola simbolicamente a scegliere tra le sue solite scarpe rosa col tacco e un paio di Birkenstock.

L’ultima pietra tombale è il momento dello “spiegone”; ovvero quando la narrazione interrotta per spiegare allo spettatore ciò che sta vedendo e ascoltando, perché evidentemente il regista ritiene lo spettatore un perfetto idiota incapace di comprendere ciò che ha davanti. Lo “spiegone”, che ammazza ogni possibilità di interpretazione, in questo caso è il momento in cui la regista fa intervenire la creatrice della bambola nella narrazione per spiegare allo spettatore ciò che ha visto, come un maestro delle elementari farebbe con un qualsiasi scolaretto. Insomma, dopo questa breve riflessione di certo non avremo esaurito l’argomento, ma possiamo dire di aver delineato i motivi per cui Barbie è il film perfetto per la società dello spettacolo: film fondato sul marketing, grandi attori utilizzati come attrazioni e spiegazioni finali che ritengono (o vogliono) lo spettatore incapace di pensare.