Di Sergio

Ogni tentativo di riforma strutturale profonda del mondo del lavoro, dei sindacati e dello Stato rischia di ritrovarsi monca se non si affronta contestualmente una riforma profonda della Scuola Pubblica. A partire dal 2003, con la Riforma Moratti, ogni tentativo fatto ha diretto l’istituzione pubblica per eccellenza verso una maggiore aziendalizzazione e verso sempre maggiori tagli di spesa. Come se non bastasse, una fraudolenta legge sulla così detta “Alternanza scuola-lavoro”, ha portato su binari difettosi un’idea di per sé valida: quella di far comunicare maggiormente il mondo del lavoro con quello della scuola. L’alternanza scuola-lavoro, mutuata successivamente nei “PCTO”, ovvero “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, ha mostrato come un’idea che poteva rilevarsi rivoluzionaria si sia trasformata – già nel nome – da un’iniziativa di effettiva alternanza tra scuole ed aziende ad una generica acquisizione di competenze trasversali, senza una reale ed effettiva qualifica al termine del percorso. Inoltre – fino a poche settimane fa – il percorso per l’acquisizione delle competenze non rientrava nella sfera dell’ambito didattico scelto dagli studenti, finendo per alimentare dei circoli viziosi di stagismo non retribuito. Un approccio del tutto sbagliato – a partire ovviamente dall’idea di subordinare il ruolo pubblico (e quindi politico) della Scuola all’economia – che ha permesso un passaggio senza mediazioni degli studenti dalle classi alle grandi aziende, ma soprattutto in contesti di rischio e insicurezza, come hanno tragicamente dimostrato le morti sul lavoro di studenti in alternanza, che – va detto – si inseriscono nel quadro molto più ampio legato alla mortalità sui luoghi di lavoro.

Insomma, se da un lato la scuola ha sposato in pieno un piano di de-strutturazione del suo ruolo educativo in favore dell’acquisizione di un ruolo di semplice orientamento al lavoro, abbiamo constatato anche un’effettiva incapacità di portare a termine questo compito, a causa di un costante e progressivo depotenziamento: nel Documento di economia e finanza (DEF)  approvato lo scorso anno dal Consiglio dei Ministri i fondi stanziati in favore della scuola sono stati ulteriormente ridotti. Se ad oggi l’Italia vi destina il 4,0% del Pil, si passerà al 3,5% ed entro il 2025 l’Italia potrebbe quindi collocarsi all’ultimo gradino continentale per spesa pubblica. Ci ritroviamo quindi in una situazione surreale: la Scuola, battezzando all’inizio di questo millennio un ruolo “aziendalistico”, si ritrova nell’incapacità di poterlo esercitare per una mancanza cronica di risorse, con l’effetto di provocare più danni di quanti se ne vogliano risolvere perché gli studenti che fuoriescono dagli studi non sono “concorrenziali” con un mercato globalizzato che impone ritmi frenetici e un costo del lavoro in continuo ribasso. Come cartina tornasole di questa situazione basti prendere ad esempio l’iniziativa di Confindustria Alto Adriatico, che solo poche settimane fa ha rivelato la volontà di aprire scuole di formazione tecnica in Ghana per sopperire alla mancanza di manodopera qualificata nel territorio. La domanda sorge spontanea: a cos’è servita negli ultimi decenni la Scuola e l’alternanza scuola-lavoro, se la più importante organizzazione datoriale decide di ricorrere ad una vera e propria “delocalizzazione” della formazione? Come può questa Scuola reggere ancora il confronto impietoso con un’economia di mercato de-regolamentata e con sempre meno tutele che rivolge verso altri lidi le sue attenzioni e i suoi investimenti?

Il nodo è vitale: occorre ripensare immediatamente la funzione della Scuola ma soprattutto il ruolo degli studenti al suo interno. La soluzione – evidentemente – non si trova in battaglie di retroguardia come il salario minimo ma nemmeno in certe ricette di nuova generazione come l’homeschooling, che vede far ricadere l’educazione sulle famiglie e la completa abdicazione dello Stato al suo ruolo pubblico. Va trovato un nuovo percorso che sappia riunire scuola e lavoro “più avanti” in una forma totalmente differente da quella che attualmente conosciamo: la forma partecipativa. La Scuola e l’Università potrebbero ritrovare un ruolo pedagogico ed anagogico portandosi in concertazione con il mondo del lavoro e dei sindacati su un nuovo piano d’intermediazione tra la domanda di manodopera (sia manovale che intellettuale) e l’offerta. Essere uno “scudo sociale” più che un trampolino verso il tritacarne consumistico. La scuola potrebbe essere il banco di prova per gli studenti per esercitare nuove forme di partecipazione e cogestione a partire dalla loro stessa impresa: la propria educazione e la scuola stessa, intesa non come semplice azienda ma appunto come “impresa collettiva”, opera in divenire che richiede lo sforzo permanente di renderla viva. Il Ministero della Pubblica Istruzione e lo Stato potrebbero quindi intervenire su tre direzioni per rendere possibile un nuovo modello di Scuola Pubblica sociale e nazionale:

  1. Intervento sociale: Riconoscere la filiera scolastica come settore strategico e predisporre dei piani di esproprio per le risorse necessarie al suo fabbisogno: dall’energia elettrica all’edilizia, dagli affitti al materiale scolastico – libri di testo compresi – occorre tutelare il “cantiere” scuola dagli attacchi speculativi; una vera e propria calmierazione forzata dei prezzi che possa abbattere i costi d’iscrizione e di mantenimento degli studi per tutti gli studenti di ogni ordine e grado.
  2. Intervento politico: Riconoscimento giuridico delle associazioni studentesche sopra una minima soglia di rappresentatività, con sblocco conseguente di ruoli all’interno dei consigli d’istituto e diritto di veto nei consigli d’amministrazione. Solo un maggiore peso politico degli studenti potrà garantire nelle sedi scolastiche una maggiore collaborazione tra le parti, centrando quello che dovrebbe essere il primo obiettivo educativo: rendere responsabili gli studenti e chiamarli all’attivismo. Si tratta di declinare per la scuola l’Articolo 39 della Costituzione, ovvero il riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali.
  3. Intervento economico: Costruzione di percorsi di alternanza scuola-lavoro con il tessuto produttivo nazionale, con periodi di apprendistato più lunghi e qualificanti con conseguente riconoscimento dei pieni diritti sindacali e corrispettivo rimborso spese. Introduzione di materie di studio sulla sicurezza sul lavoro, sulla cultura del lavoro e sul diritto e la legislazione del lavoro, utili a formare non solo la conoscenza ma anche la “coscienza” dei futuri lavoratori.

Questo intervento – va detto – dovrebbe essere concertato con una riqualifica di ampia portata del mondo del lavoro: lotta ai contratti precari, innalzamento degli stipendi, adeguamento industriale alle esigenze produttive del terzo millennio imperniate sullo sforzo della transizione energetica, la quale necessita di una via nazionale per non finire nel cappio di nuove dipendenze dall’estero. Insomma con il ritorno ad una “grande politica” industriale che metta al centro la collaborazione e la giustizia sociale, ma che soprattutto abbia il coraggio di combattere l’economia finanziaria capitalistica de-regolamentata che corrode il tessuto produttivo e pone tutti i lavoratori su standard più bassi di sicurezza, che tende ad importare beni di consumo ed esportare cervelli. Ogni percorso di alternanza fuori da questa via è da ritenersi criminale ed inauspicabile.

Gli studenti potrebbero così disporre di una scuola-mezzo “potente” per porsi in maniere differente rispetto alle sfide che il nuovo millennio impone alla società Europea. Una seria ed organica riforma del mondo del lavoro passa necessariamente dall’educazione di nuove generazioni che sappiano percepire ed operare già in contesti partecipativi dove responsabilità, collaborazione e competenza sono parte essenziale del lavoro stesso. La futura organizzazione del lavoro passerà dall’organizzazione della scuola sotto forme differenti che richiamino alla responsabilità e al dovere e sviluppino ruoli di competenza sia tecnica che politica già dal periodo scolastico.

Volontarismo tridimensionale

Il perno su cui dovrebbe poggiare questa trasmutazione della Scuola sta nella visione del mondo volontaristica: l’obiettivo deve essere quello di portare l’Istruzione Pubblica da un campo d’imposizione nozionistica a quello di imposizione di volontà. Educare ad una forma totalmente diversa di libertà potrebbe sanare la crisi di rappresentatività che stanno subendo le democrazie parlamentari: una libertà che è dovere più che diritto, dove dovere non è l’imposizione di una società penitenziaria, ma l’autoaffermazione di un’identità, di una comunità, di una formazione e un progetto. Il ruolo della Scuola potrebbe quindi essere rivoluzionato ed innalzato ad un livello superiore: ovvero quello di suscitare, formare ed innalzare una gioventù nuova, in grado di attingere alle proprie energie per riconvertire l’Italia ad un ruolo di primissimo piano, scartando il ruolo consumistico per un nuovo ruolo artistico.

Per questo l’estensione dell’esperienza scolastica dovrebbe essere prolungata anche oltre il così detto “obbligo”, accordandosi ad una visione organica, nazionale e sociale dell’educazione. Un’educazione che sappia andare oltre le lezioni sulla cittadinanza per rendere viva e attiva la partecipazione degli studenti. Deve essere quindi ripensato ed esteso il servizio civile universale in un’ottica completamente differente per gli studenti neo-diplomati, che sappia rispondere alle esigenze dei più giovani e superare certe battaglie di retroguardia come la leva obbligatoria: immaginiamo che una tripartizione funzionale possa servire a questo scopo, lasciando il campo di scelta alle attitudini e alle differenti inclinazioni.

  1. Servizio Volontario del Lavoro: dare allo studente la possibilità di seguire un percorso di formazione tecnica, etica e di cultura sindacale, con certezza d’inserimento lavorativo al suo termine. Servono progetti di lungo periodo (annuale o biennale) che supportati, controllati e finanziati dallo Stato sappiano dare al lavoro una formazione qualitativa e non solo remunerativa.
  2. Servizio Volontario di Difesa: dare allo studente la possibilità di seguire percorsi di formazione fisica e sportiva, con sblocco di accessi preferenziali ai corsi pre-militari, ai concorsi pubblici o agli enti di protezione civile. Solo un corpo volontario potrà incarnare meglio lo spirito di servizio alla Nazione, più che la semplice promessa di carriera.
  3. Servizio Volontario Universitario: l’elevazione della conoscenza tecnica e culturale va posta sul livello di primissimo piano e tutelata. Ogni neo-diplomato deve avere la possibilità di accedere ad Università a numero aperto e deve essere supportato nel percorso di studi, ed essere impegnato attivamente nella ricerca e l’innovazione ma anche nello sviluppo d’impresa e nella costruzione di percorsi paralleli con aziende ed asset strategici.

Si potrebbero immaginare come percorsi post-scolastici separati e a sé stanti, da seguire a libera scelta in orario extra-scolastico, oppure come tre tappe da cui ogni studente dovrà passare, in un’ottica tridimensionale del suo percorso di studi ma anche di vita, seguendo quella che già fu l’ammonizione di Tucidide: “La società che separa i suoi studiosi dai suoi guerrieri avrà il suo pensiero fatto da vigliacchi e il suo combattere da idioti”, e probabilmente è proprio il “pensiero vigliacco” quello più pericoloso, quello che si è feudalizzato nelle istituzioni e che comprime ogni mobilità sociale e soprattutto ogni pensiero critico. Forse – e diciamo forse – la ricerca e l’innovazione, lo spirito eretico e prometeico della scienza, potrebbe trarre maggiore beneficio da una fluidificazione di questo genere, dove il “tecnico” conoscerà non solo il suo manuale ma avrà anche un occhio sul mondo e soprattutto un’esperienza sensoriale ed intuitiva sui problemi che dovrà affrontare. Chiamatelo pure olismo: a noi piace di più pensiero organico, o magari “vivente”. Non c’è nulla – per parafrasare Emerson – nell’intelletto che non sia prima esperienza dei sensi.

Si potrebbero immaginare questi servizi volontari come propedeutici al raggiungimento dei pieni diritti politici, ma qui si entrerebbe in un campo d’immaginazione del tutto nuovo ma che merita di essere messo in discussione almeno a grandi linee: se la crisi della democrazia è evidente, occorre immaginare percorsi nuovi di cittadinanza che si pongano come obiettivo quello di portare gli individui alla libertà e non la libertà agli individui. Non sarebbe folle immaginare il proprio percorso di studi, da quello inferiore a quello universitario, non solo come acquisizione di una conoscenza ma conquista dei propri diritti politici – non sociali e civili: sganciare il diritto di voto dal numero (quello anagrafico) per agganciarlo al volontarismo. Potrebbe avere così un senso nuovo la cultura, il sapere e l’arte stessa; non più intese come branche separate ma connaturate al proprio ruolo di cittadino da guadagnarsi attraverso il proprio impegno, creatività, studio. Un vero e proprio ordine basato sul potere politico delle arti, intese in tutte le sfumature intellettuali e manuali. Iper-politicizzare la scuola – se vogliamo – dove politica sarà finalmente intesa come res publica e la società non più come un contratto ma come un tentativo, una realtà da sperimentare, una meta da raggiungere. Ma qui lanciamo il sasso in uno stagno perché si parla di una rivoluzione integrale del sistema democratico liberale con tutte le implicazioni ideologiche che ne seguono: tanto vale dircelo ed ipotizzare fin tanto che fantasticare – al momento – non è un reato.

Creare creatori

Un mito nuovo: una tripartizione volontaria e volontaristica che porrà come scopo ed orizzonte del sapere quello di agire nel mondo, attraverso il popolo, per un progetto di grandezza nazionale e comunitaria. Questi servizi volontari andranno messi a disposizione di tutti gli studenti e posti sotto le tutele della Repubblica per essere usati come mezzi – dagli studenti – per aumentare sempre di più i gradi di partecipazione degli stessi alla vita pubblica. Solo una Scuola che non ignori la società in cui è inserita, ma anzi saprà portarsi davvero nel pubblico, potrà avverare l’idea che sta alla base della conoscenza e della cultura: servire attivamente la comunità, ma soprattutto uno scopo ed un progetto storico in divenire. Si tratta di portare il sapere su di un piano attivo ed eroico, dove ognuno può essere eroe attraverso il suo lavoro, dove questo lavoro non mira al numero ma “tende alla bellezza e orna il mondo” (Carta del Carnaro). Creare creatori che “scrivano nuovi valori su tavole nuove” questo deve essere il nuovo mito della Scuola Partecipativa. Creare con le nuove generazioni un Popolo – perché sì, i popoli si creano, si creano con i figli, si creano riunendo una nobiltà intorno ad uno scopo. Un popolo come non si è mai visto, in grado di fondarsi nelle proprie origini ma soprattutto nella sua meta, perché sappia proiettarsi verso il futuro europeo dell’Italia saltando i lenti, i dubbiosi e gli eterni malcontenti.