La Redazione

All’inizio di questo nuovo ciclo per la nostra redazione vogliamo pubblicare un articolo apparso per la prima volta nel 1935. Un articolo che ci sembra fondamentale, anzi essenziale. Perchè nella sua essenza racchiude lo spirito del nostro progetto rivoluzionario, ovvero pensiero ed azione: il binomio mazziniano, poundiano, Fascista. Noi, che vogliamo ancora una volta interpretare questo ruolo di fronte alla storia, sentiamo tutta la necessità e la tensione di far tornare ad avverare questa sintesi di fronte ad un mondo che ha ripiegato le ali ed è tornato nelle caverne. La cultura – ancora una volta – è chiamata ad uscire dalle nicchie, dai porti sicuri e i nidi accoglienti per diventare stile e discorso, progetto ed azione. Questa è una redazione militante, fatta da ragazzi e ragazze quotidianamente impegnati nelle scuole e nel lavoro, che si sente “portatrice e responsabile della rivoluzione italiana“. Queste parole, che hanno ancora su di noi un potere d’attrazione irresistibile, chiariscono una volta di più l’unico nesso possibile tra noi e la cultura, togliendo di mezzo qualsiasi velleità da “intellighenzia” e ogni equivoco autoreferenziale. Parole di fuoco che saranno domani quelle di nuove generazioni con una “tremenda voglia di camminare“, sempre pronte a far riemergere lo spirito eretico e rivoluzionario della gioventù dalla fucina incandescente della propria immaginazione.

L’intelligenza rivoluzionaria

di Berto Ricci – L’Universale n°6 (1935)

La si può definire per esclusione. Essa non ha niente di comune con la cultura che io chiamo neutrale, con l’intelligenza pura, apolitica, “scopo a sè stessa”: anzi questa le appare così remota nel tempo, così burlesca e irreale, che il trovarne molti esemplari ancora in circolazione e talora in posizione eminente è per lei motivo di stupore dapprima, di vivo sospetto in un secondo momento. L’intelligenza fascista non opera e non ammette che si operi se non entro lo Stato. Ma, anche, pochissima è la sua affinità con una letteratura e cultura pseudofascista che rappresenta uno degli equivoci più gravi di questi anni. Per intelligenza fascista, operare entro lo Stato ha un significato molto serio. Ecco perché spontaneamente essa aborre dalla retorica esaltativa, ed è indotta a considerare secondaria ogni apologetica del Fascismo che non sia al tempo stesso generazione o chiarificazione d’idee, ecco perché non lo convincono e anzi la urtano come ingombri nocivi le vane declamazioni, nelle quali scarseggia sempre l’ingegno, talvolta la fede; e anche se questa c’è, non si può dire che il suo manifestarsi sia in tal caso preferibile a un fedele silenzio. Ecco, insomma, perché le ripugnano in genere le incontinenze verbali. Non quelle sole.

Le ripugna a maggior ragione ogni deviazione, conscia o no, dalla dottrina e dallo spirito della dottrina. Un esempio: la così detta “fascistizzazione” della storia, come spesso la si è intesa: che è cosa ben diversa da una logica e necessaria interpretazione fascista della storia. Fascistizzazione, che consiste il più delle volte in una serie d’incaute riabilitazioni di personaggi di destra, sino a glorificare ogni mano forte di governo, solo perché forte; e sino alla sorprendente aberrazione di rimetter su un trono fortunatamente fantastico (non diciamo ideale) i tirannelli antitaliani del Risorgimento. Naturalmente, e sempre per restare nel caso in questione, occorrerà anzitutto distinguere tra destra nazionale, gloriosa di propositi e di opere per l’unità italiana, e destra semplicemente codina o retrograda o schiava; vagliare anche qui il sostanziale dal caduco, l’italianità dal programma di partito; infine non deprimere con somma e puerile ingiustizia altri uomini e tendenze i cui errori non furono certo maggiori di quelli dei primi e la cui efficacia fu per lo meno uguale.

Se una storiografia di “sinistra”, promossa da quella Massoneria che non fu davvero la protagonista delle lotte d’indipendenza ma fu bene la prima a coglierne i frutti e ad arrogarsene il monopolio, poteva con impudenza pari alla stoltizia abolire la dialettica della storia sino al punto di ridurre questa a manifesto di propaganda elettorale, sarà invece compito dello storico fascista quello di ricomporre in armonia le contrarie forze da cui l’Italia è nata, fatalmente contrarie prima di convergere in Mussolini; e sua linea sarà la linea di Oriani. Il quale per cervello e passione grandeggia sui piccoli faziosi di prima e di poi; e intraprese a dare delle nostre vicende recenti e antiche una redazione che è insieme inno fervido, ma che nulla trascura, nulla pospone nel complesso alterno gioco delle energie da cui scaturisce come fiore delle generazioni l’atto di fede più solenne e più vero. Queste le ragioni per le quali — e non solo nel considerar la storia passata, ma anche nel costruire la presente e futura — non hanno senso le parole “sinistra” o “destra” nel Fascismo; e, se l’avessero, se cioè l’intellettualismo di pochi potesse dar luogo a tendenze concrete, sarebbe senso esiziale e tale da combattersi a ogni modo.

Carattere ideale dell’intelligenza fascista è il suo sentirsi portatrice e responsabile della rivoluzione italiana: dove l’aggettivo “italiana” non è minimamente inferiore d’importanza al sostantivo “rivoluzione”. E dunque niente rivoluzione per la rivoluzione, ma rivoluzione d’Italia e per l’Italia: parole che posson sembrare luoghi comuni e hanno invece, se meditate a fondo, il valore di una premessa fondamentale. Parole realizzate nell’ordine pratico, e invece ponibili ancora come mèta alle attività intellettuali, dove tanto sopravive della passata stagione, non solo ma notevole è anche la confusione in molti dei più giovani e nuovi. Ma nulla costa se manca all’intelligenza fascista, la fede. Questa la estrania per sempre dalla cultura neutrale, che non ebbe e non ha fede, ma solo ebbe e ha l’interesse del sapere: già detto nobile e sacro nell’epoca di tutte le neutralità, ma, per il Fascismo, paurosamente misero se solo.

La distingue anche, la fede fascista, dalle intelligenze e dalle culture di altre fedi e ciò ovvio. Rari e sopra tutto marginali saranno i contatti; benché, bisogna dirlo, maggior e addirittura diametrale sia l’opposizione tra l’intelligenza che si gloria del sostanziale aggettivo di “fascista”, e quella che non si degna di contaminarsi con attributi politici. Tra uno scrittore sovietico e uno senza connotati definiti che sia casualmente nato in Italia, scelgo il primo. Là vi è immensa distanza, qui c’è di mezzo l’infinito. La fede e la volontà di operare nello Stato pongono l’intelligenza sul piano dell’azione. Non è detto che si tratti di un’azione politica immediata: ben più vasto e più impegnativo è il significato che una rivoluzione dà a questa parola. È essa la educazione e trasformazione graduale dello spirito del popolo; è, nello scrittore, nell’artista, la certezza d’una missione cui ogni godimento estetico è subordinato, cui è strumento e solo strumento ogni particolare sistema. L’intelligenza fascista mira al totale dell’uomo: vale a dire non è mai solo intelligenza, ma parte da un integrale sviluppo delle facoltà umane per far presa su tutte, e tutte accoglierle nella sua sintesi. La fermezza del carattere, il coraggio morale e fisico, la virile bontà, l’entusiasmo illuminato, l’indipendenza dalle miserabili avidità del successo e del lucro superfluo, sono i suoi requisiti costanti e necessari.

È universale perché italiana e perché rivoluzionaria: quindi tanto distante dal logoro internazionalismo degl’iloti d’Europa, quanto dallo stolido sciovinismo delle menti corte e delle anime isteriche: queste e quelli, bisognosi di un estremismo che nasconda in qualche modo la loro irrimediabile mediocrità. È negatrice innata di ogni camorra regionale e di qualunque campanilismo anche puramente poetico: e non occorre dimostrarne il perché, ma piuttosto soggiungiamo che la divina varietà delle terre italiane non sopporta di esser profanata da un “folclorismo” balordo e soltanto vale in quanto significa concordia di elementi nell’unico insieme, cioè di “parti”, che sono parti e sanno di esserlo. È studiosa dei mezzi espressivi e desiderosa della perfezione anche formale, e questo perché proviene da un popolo di suprema civiltà, palese anche nell’atteggiarsi e parlare della gente, negli oggetti domestici delle classi non guaste da meccaniche mode, nelle feste ingenue e genuine, nelle piantagioni e colture, dal paesaggio subalpino al meridionale. Allo scrittore fascista più che ad altri si richiede la padronanza del linguaggio, perché non saprei di quale patria e a quale patria egli possa parlare, se un contadino o un marinaio del suo paese può dargli in qualunque momento lezioni di eleganza e di forza nell’esprimersi.

Questo valga come giudizio per la barbarica superstizione dello “scriver male” obbligatorio, imperversata anche da noi al seguito di dementi stranieri; e per gli equivalenti di essa, facili a individuarsi, nelle altre arti e discipline. L’intelligenza fascista non procede per facili vie, ma si tempra e si legittima attraverso il sacrificio. Lo Stato corporativo le garantirà l’esistenza, ma guai al giorno in cui esso le garantisce qualche cosa di più. Si possono anche scrivere romanzi allo scopo di procurarsi una villa in Riviera, ma questo equivale a porsi automaticamente fuori di una milizia che non bada a spese e bada pochissimo alle entrate. L’intelligenza fascista non ha punti di contatto con l’uomo economico.

Blocco Studentesco