Di Chiara 

Per quanto negli ultimi anni la metafora più adeguata a descrivere il cinema italiano fosse quella di un cadavere in putrefazione, traviato dal politicamente corretto e da battaglie opinabili, ad oggi potremmo assistere ad una sua resurrezione. 

Ne è testimonianza la pellicola “C’è ancora domani”, esordio alla regia di Paola Cortellesi, che nonostante si presenti come un film femminista, offre al pubblico italiano qualcosa in più. Ricorda ad un’intera nazione che è ancora capace di creare film di qualità, che il massimo che può trovare nei cinema non sono lungometraggi recitati da influencer che si credono attori solo perché hanno imparato un paio di battute a memoria, che non ci si improvvisa sceneggiatori perché qualcuno ai piani alti ha deciso che deve fatturare grazie al fenomeno social del momento.

Paola Cortellesi ci ha dimostrato che l’improvvisazione in questi casi non è un valore aggiunto. Nella sua opera prima indaga la vita di una donna del ceto medio basso alla vigilia del Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in cui per la prima volta tutta la popolazione maggiorenne venne chiamata alle urne. Nonostante racconti un evento cruciale per la storia d’Italia, non si sofferma sulla questione politica, ma evidenzia quella che era la quotidianità di una famiglia come mille altre della società italiana postbellica. Racconta di una donna che a causa del pensiero comune dell’epoca si ritrova vittima dei soprusi di un marito, che pensa di poterla addomesticare come fosse un cane. È soprattutto la dimostrazione di quanto possa essere forte l’amore di una madre disposta a qualsiasi cosa pur di evitare alla figlia la sua stessa vita, che non è altro che un susseguirsi di eventi. 

La regista ci ha dimostrato che può esistere un femminismo privo di isterismi, privo di cause inutili e degradanti per la donna. Ci racconta di un femminismo dignitoso, che ha come obiettivo principale quello di estrarre la donna da catene imposte da una società non fascista, ma estremamente e tragicamente borghese, che vive solo di apparenze. È una società logorante non solo per le donne, ma anche per gli uomini che, per quanto descritti come brutti e cattivi, sono vittime delle stesse catene. È una società che nonostante il passare degli anni e il cambiare dei governi, non si preoccupa di migliorare la condizione delle proprie figlie (e dei propri figli), ma spinge solo per far apparire tutto nel modo migliore possibile, cercando di nascondere le meschinità che la caratterizzano.

La Seconda Guerra Mondiale, nonostante rimanga sullo sfondo, è una delle protagoniste principali: si palesa soprattutto quando vengono sottolineante la grettezza di un popolino che è solamente invidioso delle conquiste altrui, che non vede l’ora di veder sprofondare l’altro nella speranza di avere gli stessi vantaggi.

Purtroppo, come sempre più spesso accade, è stato l’ennesimo capro espiatorio di una certa parte politica per la solita propaganda; tra chi l’ha percepito come un film contro il Presidente del Consiglio Meloni e chi come baluardo antifascista, se ne sta perdendo l’essenza: si tratta “semplicemente” di una storia di coraggio di una donna che nel suo piccolo è disposta a tutto pur di “salvare” la figlia da un matrimonio che si preannuncia poco diverso dal suo, cercando di evitarle una vita infelice e immobilizzata da briglie borghesi.