di Saturno

Il modo in cui si guarda al passato storico è spesso influenzato da stereotipi ripetuti per ignoranza, faziosità ideologica o malafede, spesso senza neanche comprenderli, come ad esempio il mito illuminista del medioevo come epoca buia e ignorante. Anche il mito del fascismo come strumento della borghesia per opprimere il proletariato è ancora oggi relativamente molto diffuso. Per comprendere come mai tale stereotipo sia stupido bisogna partire dall’argomentazione ripetuta a pappagallo a sostegno di tale tesi: Mussolini ha represso il movimento operaio, chiuso i sindacati e abolito il diritto di sciopero. Talvolta per far passare una visione distorta della storia non è necessario mentire ma basta raccontare solo parte della verità, ignorando contesto, circostanze, conseguenze ed altri fattori.

Quando si parla di scioperi nel primo dopoguerra non dobbiamo pensare ad essi come agli scioperi di oggi. A differenza di ora, gli scioperi organizzati all’epoca dall’estrema sinistra (dominante nell’ambito dei sindacati) non avevano solo come obiettivo rivendicazioni di tipo economico-lavorativo (aumento degli stipendi, riduzione delle ore di lavoro, ecc.), bensì avevano una natura politica sovversiva. Era da poco avvenuta la rivoluzione bolscevica in Russia, seguita da tentativi anche altrove di presa del potere da parte dei comunisti con la forza, come in Ungheria, Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo, Finlandia, ecc. oltre che al tentativo dell’Urss di invadere la Polonia. In Italia, come in più o meno il resto dell’Europa, l’estrema sinistra ispirata dall’esempio della rivoluzione russa, cercava di prendere forza (specie tra gli operai) per un’eventuale futura rivoluzione comunista, utilizzando anche metodi di forza come l’occupazione delle fabbriche, non al fine di protestare o rivendicare condizioni lavorative migliori, ma con l’intento di farle gestire da operai e sindacati rossi tramite la creazione di “consigli di fabbrica” sul modello dei soviet in Russia.

Essendo i fascisti, per una serie di motivi ideologici, oppositori radicali del comunismo, dovrebbe essere chiaro di come i fascisti combatterono contro partiti, sindacati ed organizzazioni di estrema sinistra per fermarli ed evitare l’eventuale scoppio di una rivolta comunista. A posteriori oggi si dice spesso che all’epoca in Italia i comunisti non erano abbastanza forti e coordinati per poter organizzare concretamente una rivoluzione, il che forse è anche vero, ma bisogna dire che se non riuscirono ad arrivare a quel punto è sicuramente anche perché i fascisti, fin dai tempi dello squadrismo, misero un freno alla loro crescita. Opporsi ai comunisti (specie quando tentano azioni di forza) non vuol dire però opporsi necessariamente alle rivendicazioni sociali ed economiche dei lavoratori (dopotutto è con questa stessa retorica che i comunisti giustificano il divieto di sciopero in Unione Sovietica), tant’è che i fascisti fin dai tempi del sansepolcrismo si sono fatti portatori di istanze sociali oltre che di istituzionalizzazione della risoluzione dei conflitti tra capitale e lavoro. Riguardo ciò, per Renzo De Felice fu il nazional-sindacalismo rivoluzionario della UIL il movimento che ha maggiormente influenzato il fascismo da questo punto di vista (e non il liberalismo).

Il corporativismo è un ideale teorizzato per la prima volta in ambito cattolico nell’Ottocento in opposizione al parlamentarismo liberale, ed evolutosi fino al Novecento anche in ambienti politici non confessionali (come alcune frange socialiste, il dannunzianesimo o lo stesso fascismo). Esso prevede la creazione di un sistema istituzionale di rappresentanza del popolo non in base ai partiti, ma alle categorie economiche inquadrate in corporazioni (ad esempio suddivise in industria, agricoltura, commercio, credito e assicurazioni, ecc.) a loro volta suddivise al loro interno (es. industria chimica, metallurgica, edilizia, ecc.); in tali organi di rappresentanza sono presenti sia i rappresentanti dei lavoratori che dei datori di lavoro. Le competenze e gli obbiettivi di questo sistema teorizzato all’epoca sono due: la direzione dell’economia del Paese (standard produttivi, distribuzione commerciale, concessione di sovvenzioni, controllo di prezzi, tariffe doganali, agevolazioni fiscali, ecc.) e la risoluzione dei conflitti tra capitale e lavoro tramite l’arbitrato dello Stato. I fascisti non negavano l’esistenza di tensioni tra capitale e lavoro, e nemmeno le volevano eliminare, bensì essi volevano imbrigliare, regolare e arbitrare questo scontro in una cornice istituzionale e statale, è per questo che la chiusura dei sindacati non fascisti è stata seguita dallo sviluppo del sistema corporativo che regolasse i rapporti tra capitale e lavoro.

Mussolini diede avvio alla costruzione di tale sistema già dal 1926 con la legge di Alfredo Rocco sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro, per poi proseguirla fino agli inizi della seconda guerra mondiale. Fino a pochi anni fa la storiografia italiana sul corporativismo nel Ventennio si limitava a liquidare sbrigativamente tale sistema come un bluff, una truffa, un inganno con cui la borghesia si imponeva sul proletariato, ma questa chiave di lettura del corporativismo si basa su critiche nate in ambienti antifascisti negli anni ‘30 e proseguiti per decenni anche dopo la guerra senza sostanziali rielaborazioni. Recentemente invece la storiografia ha rivalutato il ruolo del sistema corporativo italiano, specificando che sebbene la propaganda del regime esaltò il ruolo delle istituzioni corporative facendole apparire più importanti di quello che furono effettivamente (ad esempio il loro ruolo nell’ambito di gestione dell’economia era subordinato a quello dell’IRI, protagonista di maggiore importanza nella direzione dell’economia italiana), o anche che l’istituzione di tale sistema fu lenta, viene comunque mostrato come quel sistema ebbe effettivamente una certa importanza e funzionalità, superando le arcaiche (e faziose) critiche che lo liquidano a semplice sistema vuoto usato come inganno della borghesia. Su questo argomento consiglio il libro “L’Europa Corporativa” di Matteo Pasetti.

Per quanto riguarda gli aspetti delle politiche economiche e sociali del fascismo, va ricordato come il modo con cui il governo Mussolini cercò di far affrontare all’Italia la grande depressione degli anni ‘20 (i cui effetti negativi perdurarono nelle economie occidentali fino al decennio successivo) fu aumentando la spesa pubblica con sempre maggiori interventi dello Stato nell’economia, a differenza di democrazie occidentali come il Regno Unito che invece utilizzarono il metodo opposto, ovvero tagli alla spesa pubblica e austerità. In che modo una politica economica che tende allo statalismo con un’espansione del settore pubblico, politiche sociali e interventi statali nell’economia, sia un modo per favorire borghesia e capitalisti a discapito degli operai, non ci è dato saperlo, in quanto si tratta di una sorta di supercazzola ripetuta da chi ancora porta i paraocchi storici del marxismo.

In conclusione vorrei anche citare il fatto che Renzo De Felice fu aspramente criticato quando nei suoi scritti rigettò la semplicistica e faziosa interpretazione marxista del fascismo quale strumento della borghesia per reprimere le rivendicazioni sociali del proletariato (e dei fascisti come mercenari dei “padroni”), definendolo come un fenomeno molto più complesso di così e che ha avuto anche aspetti rivoluzionari, ma col tempo le sue tesi non solo sono diventate accettate, bensì esse sono considerate oggi una base storiografica solidissima con cui bisogna necessariamente confrontarsi per fare ricerche e studi su quel periodo, ed egli è oggigiorno ritenuto lo storico più autorevole in assoluto sul Ventennio. Eppure nonostante in ambito accademico la semplicistica chiave di lettura marxista sul fascismo sia oggi quasi scomparsa (anche se non del tutto, basta vedere il modo in cui ne parla Barbero), quel tipo di vulgata perdura ancora oggi tra le masse, alimentata da ambienti di sinistra che forse non hanno l’onestà intellettuale di ammettere o anche solo comprendere come qualcuno che ha un’altra visione politica-economica possa governare facendo del bene per i ceti meno abbienti, o forse perché Mussolini è stato l’unico che è riuscito a fare una rivoluzione in Italia e gli rode ancora il culo per questo, quindi cercano rozzamente di sminuirne e diffamarne l’operato.