di Michele

È indubbio il peso che un certo esoterismo e pensiero tradizionale ha avuto all’interno del variegato mondo del fascismo e soprattutto nel neofascismo. Una delle tesi centrali è quella di associare il concetto di kali yuga al sentimento di decadenza europeo – frutto della rivoluzione industriale e dalla secolarizzazione portata avanti dalla modernità (la famosa “perdita dell’aureola” di Baudelaire) – e alla sua controparte filosofica, ovvero il nichilismo. Il caso forse più esemplificativo in questo senso è Cavalcare la tigre di Evola. Proprio nelle prime pagine del libro, ne spiega il significato:

nel mondo classico esso è stato presentato nei termini di una discesa dell’umanità dall’età dell’oro via via fino a quella che Esiodo chiamò età del ferro. Nel corrispondente insegnamento indù l’età terminale è detta kali-yuga (=l’età oscura), e l’idea essenziale qui viene precisata col sottolineare che al kali-yuga è proprio appunto un clima di dissoluzione, il passaggio allo stato libero e caotico di forze individuali e collettive, materiali, psichiche e spirituali che in precedenza erano state in vario modo vincolate da una legge dall’alto e da influenze d’ordine superiore.

In altre parole, la fase terminale che stiamo vivendo non trova una spiegazione solamente da un punto di vista storico-politico, ma è parte di un ciclo cosmico. Non tocca solo le corde dell’umano, ma anche quelle del divino. Un’immagine – anche se non è precisamente il caso di Evola (lo stesso Cavalcare la tigre è un tentativo, per quanto più esistenziale che politico, di trovare una via e una direzione all’interno del kali yuga) – che potrebbe portare a un certo disfattismo e fatalismo. In ogni caso, certamente non molto incoraggiante per chi deve fare i conti con la realtà che lo circonda. Anzi, pensare che tutto sia preda dello disfacimento e per questo intimamente mancante può condurre all’opposto a uno strano snobismo, in cui l’errore dell’epoca in cui viviamo diventa l’alibi per i nostri sbagli e la nostra pochezza.

Una tentazione ancora più forte quando si idealizza e si estremizza come ora più buia gli ultimi secoli della nostra storia in cui ormai tutto è perduto o quando semplicemente si ignora la portata del kali yuga. A parte la tradizione esiodea che riconosce una rifioritura dell’età dell’oro appena prima dell’età del ferro, con l’età degli eroi finita pressappoco con la guerra di Troia, di cui abbiamo in parte un documentazione storica oltre che nei poemi omerici, l’intera storia umana che conosciamo è all’interno dell’età oscura del kali yuga. Nella maggior parte dei miti quest’ultima comincia con il diluvio universale.

Sapere ciò per qualcuno potrebbe essere ancora più disperante, ma è utile per non crearsi false illusione sul passato. Le tradizioni sono solamente l’eco di una sapienza primordiale, non sono quell’esatto sapere. Da Sparta a Roma, anche i riferimenti politici più antichi che possiamo prendere come esempio ideale sono comunque immersi nell’imperfezione e nelle tenebre, per quanto brillino di una loro luce. Sono appunto modelli che si elevano da e con il loro tempo. Andando più a fondo nella dottrina dei cicli cosmici, le umanità che popolano le varie età sono metafisicamente diverse fra di loro. La nostalgia verso un’età dell’oro ha quindi qualcosa di paradossale, anzi ad usarla come mito politico sono più spesso le forze progressiste che appunto immaginano di poter redimere il mondo e trovare nell’utopia una nuova età dell’oro, la quale – sia detto per inciso – il più delle volte assomiglia invece a una sorte di quietezza animale.

La dottrina dei cicli cosmici è quindi interamente da buttare? Nient’affatto, a patto di saperla intendere. Potremmo paragonarla a quella forma di strano pessimismo esistenziale che è lo spirito tragico dei greci. La lucida contemplazione della sofferenza, dell’imperfezione e della mancanza di senso dell’esistenza non porta come conseguenza una passiva accettazione, né l’idea che questa sia una sorta di peccato da estirpare o di errore da correggere. Piuttosto ne consegue una volontà di affermare sé stessi, un’esaltazione della vita e del destino come amor fati, poiché “se qualcosa v’è di più potente del destino, / è il coraggio che lo sopporta incrollabilmente”. Pensarci in un’epoca oscura, se non addirittura nella più oscura delle epoche, dovrebbe quindi essere accolto come un invito al coraggio e all’affermazione di sé nonostante tutto.