Di Sara

“Numero penale 76028”. In pochi conoscono il tragico epilogo di cui fu vittima il poeta Ezra Pound al termine della Seconda Guerra Mondiale. Trattato più come un folle che non come un intellettuale, Pound fu inizialmente confinato in completa solitudine dentro una gabbia per due settimane, un preludio a quello che si sarebbe rivelato un internamento di oltre dieci anni in un ospedale psichiatrico, il tutto senza il beneficio di un processo. Questo fu un caso di “cura” forzata, con il pretesto di liberarlo dalle sue ideologie fasciste, ritenute sintomi di psicosi da parte del dottor Winfred Overholser.

Il 24 maggio 1945, l’illustre poeta statunitense Ezra Loomis Pound si trovò rinchiuso in una cella speciale – una vera e propria gabbia – nel Centro di Addestramento Disciplinare dell’Esercito degli Stati Uniti a Metato, pochi chilometri a nord di Pisa. Il recinto dell’USDTC, che i giornali americani avevano definito il deposito dei “sedimenti sporchi delle nostre truppe nel teatro del Mediterraneo”, era usato per incarcerare i militari statunitensi che avevano commesso gravi reati e che erano in attesa della corte marziale, del trasferimento in un istituto di pena negli Stati Uniti o dell’esecuzione. La maggior parte dei prigionieri era alloggiata in tende, ma quelli sospettati di tendenze suicide, considerati un pericolo per gli altri, propensi a tentare la fuga o condannati a morte, erano alloggiati nelle cosiddette “celle di osservazione”, comunemente note ai detenuti come “celle della morte”.

Pound era l’unico civile. Le istruzioni dei superiori stabilirono che Pound doveva essere messo sotto “sorveglianza speciale e permanente per prevenire la fuga o il suicidio”. Nessun contatto con la stampa. Nessun trattamento privilegiato. Le gabbie erano in rete d’acciaio, di circa due metri per due, aperte alla vista su tutti e quattro i lati e coperte in cima da una lastra di metallo. I riflettori illuminavano le gabbie per tutta la notte e gli occupanti erano tenuti in isolamento, con il divieto per le guardie di parlare con loro. Per evitare tentativi di suicidio, i prigionieri non avevano cinture o lacci delle scarpe e non avevano un letto, dormendo, come potevano, sul pavimento di lastre di cemento con le sole coperte. Venivano nutriti una volta al giorno e per fare i bisogni usavano un bidone in un angolo del recinto. Una volta ogni tre giorni, Pound veniva fatto uscire dalla gabbia per un po’, per andare a farsi una doccia e fare esercizio camminando fino alla cabina della doccia. Non erano ammessi libri o altro materiale di lettura.

Dopo circa due settimane in questo ambiente, intorno al 7 giugno, Pound pare abbia avuto una sorta di esaurimento nervoso. Il caldo di giorno, le notti relativamente fredde, la polvere, la mancanza di privacy e l’isolamento sociale lo avevano colpito. Alcuni anni dopo, Pound fece luce sulla sua detenzione a Pisa:

“Sì, credevano che fossi una persona pericolosa, imprevedibile, e osservai che li spaventai molto. A volte notavo che le guardie mi guardavano come giudici. Il loro sguardo si traduceva in “gorilla, stai in gabbia!”. Quando i soldati erano fuori servizio, venivano a guardarmi con un senso di meraviglia. A volte mi lanciavano un pezzo di carne o qualcosa di dolce, proprio come a un animale. Il vecchio EZ: uno spettacolo emozionante e affascinante.”

Questo avvenimento servì come scusa perfetta per permettere alle autorità americane di riportarlo in patria, giudicarlo un traditore senza processo giudiziario, e rinchiuderlo all’ospedale psichiatrico per criminali di St. Elisabeth a Washington il 21 dicembre 1945

Pound fu rinchiuso in una cella solitaria con una porta dotata di spioncini attraverso i quali poteva essere osservato. All’inizio non fu nemmeno lasciato uscire per fare esercizio nel cortile affollato, ma era costretto ad essere a contatto con pazzi violenti, visto che all’inizio di gennaio disse al poeta americano Charles Olson, suo amico: 

“C’è un indiano nel mio reparto che parla continuamente di uccidere la gente. Ieri sera ha fatto salire a 10.000 il numero di persone che voleva far fuori”.

Pound fu detenuto nel reparto penale del St. Elizabeths per tredici anni. Nonostante tutti i tentativi fatti dalla moglie e dagli amici per liberarlo, tutto era stato fatto in modo che ciò fosse impossibile. Il fatto che fosse stato considerato “troppo malato di mente” per essere processato non era un motivo per rilasciarlo, perché questo non aveva nulla a che fare con il fatto che fosse o no pazzo al momento del reato. Non poteva essere graziato, perché non era stato condannato per alcun reato e non c’era nulla per cui graziarlo. Non poteva essere processato e assolto per infermità mentale, perché si era rifiutato di fare questa difesa e, infermità o meno, la Corte Suprema aveva stabilito che non poteva essere costretto a farlo.

Era desiro e trattato come un incapace dal personale ospedaliero, uno tra i tanti il dottor Jerome Kavka, uno psichiatra, contro il quale Pound non riuscì a trattenersi durante una delle tante sedute in cui cercò di dissuaderlo dalle sue “idee pericolose”:

“Ovviamente non sono violento e non cago sul pavimento. Quando mi faranno uscire da questo reparto? […] Sono arrabbiato… irato! Sapete benissimo che soffro di claustrofobia e mi mettete in una stanza chiusa con sbarre e lucchetti e mi rinchiudete di notte. Qui si è nella Russia sovietica; si è completamente al capriccio di questi inservienti.”

Alla fine, nel 1958, all’età di 72 anni, fu rilasciato e tornò in Italia, dove il suo gesto di saluto fascista allo sbarco davanti alla stampa dimostrò che tutti gli anni di prigionia non erano riusciti a piegarlo. 

L’incarcerazione di Ezra Pound rappresenta un capitolo oscuro nella storia dell’uso del potere giuridico e psichiatrico per confinare e tentare di neutralizzare le idee considerate pericolose o indesiderate. L’arresto e la detenzione di Pound senza processo, basati sulla percezione delle sue convinzioni politiche come sintomi di una malattia mentale, mettono in luce la pratica inquietante di soppressione intellettuale sotto il velo della cura sanitaria. Applausi, dunque, per l’ingegnoso metodo di “riabilitazione” americano che, con la sottile maestria di un macellaio alle prime armi, ha sapientemente ignorato ogni principio di giustizia e umanità.
Da anni, ormai, la sinistra si è fatta maestra di questo metodo di etichettazione per tutti coloro che non la pensano esattamente come loro. Chi si allontana dalla narrativa “accettabile” è un violento, uno squilibrato ed un ignorante. I limiti dell’accettazione e dell’accoglienza iniziano e finiscono nella cerchia stretta dell’ideologia woke.