di Enrico

“Il suo “La Filosofia di Marx” (1899) è una delle migliori opere su Marx che siano state scritte da una penna non marxista […]; l’autore rileva alcuni aspetti importanti della dialettica materialistica che di solito sfuggono all’attenzione dei kantiani, dei positivisti ecc.”.

Gramsci? Togliatti? Non proprio. Questo è il modo in cui il padre della Rivoluzione russa, Vladimir Il’ic Ulianov “Lenin”, parlava del filosofo capofila dell’Attualismo: Giovanni Gentile.

La “frase ad effetto” che abbiamo citato all’inizio viene per la precisione da una nota bibliografica di un articolo-saggio su Karl Marx scritto da Lenin nel 1914.

Giovanni Gentile a ben vedere è l’unico filosofo italiano citato dal padre del Comunismo sovietico in un suo scritto. E ancora più interessante è notare il fatto che nella traduzione italiana del 1950 di questo articolo, all’interno di un’antologia leninista curata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti, il riferimento di Lenin a Gentile venne espunto. Non contento di averlo ucciso fisicamente, l’ex leader della sezione comunista del CLN volle uccidere Gentile una seconda volta.

Com’è noto, Togliatti non rappresentava certo quella parte del Comunismo che fosse un minimo avvezza al ragionamento critico. Non dimentichiamo che è in quel periodo che il giornalista Guareschi coniò il termine “trinariciuto” per riferirsi agli iscritti del PCI: con tale espressione intendeva dire che la “terza narice” serviva ai comunisti per disperdere i fumi del cervello offuscato dall’ideologia e dalla cieca fede nelle roboanti direttive del partito. Tradotto: se il partito dice che gli asini volano, allora gli asini volano. Questo era il PCI che aveva in mente Palmiro Togliatti.

Potremmo forse addirittura dire, a titolo di ipotesi, che i più contenti della carcerazione di Antonio Gramsci e poi della sua morte siano stati proprio Togliatti e gli altri dirigenti del PCI: lo spirito critico del filosofo di Ales mal si conciliava col partito “trinariciuto”, per continuare con l’espressione di Guareschi. Da morto ne hanno fatto un eroe-martire del partito, da vivo l’avrebbero relegato forse alla penultima pagina de l’Unità. Ma, ribadiamolo, non ne abbiamo la certezza; si tratta solo di un’ipotesi.

Fatta questa doverosa parentesi sulla censura a posteriori di Gentile da parte della dirigenza del PCI, mentre il maggior esponente del marxismo rivoluzionario lo citava come “miglior penna non marxista”, torniamo al punto da cui siamo partiti; ovvero il contributo del filosofo di Castelvetrano alla discussione sul marxismo.

Il testo “La Filosofia di Marx” del 1899, frutto di una sintesi tra due precedenti opere del giovane Gentile (“La Filosofia della prassi” e “Una critica del materialismo storico”), segna un punto molto importante nella discussione sul marxismo che tra fine Ottocento e inizio Novecento stava infiammando il dibattito culturale di area marxista, neoidealista e neohegeliana. Un punto tanto importante da portare a Gentile, come abbiamo detto, persino il plauso di Lenin.

Gentile, infatti, oltre ad aver rivisto e rielaborato il concetto di prassi nell’interpretazione del pensiero di Marx, sottolinea una contraddizione di fondo; l’attribuzione alla materia di capacità dinamiche e persino creative. A questo, Gentile contrappone il primato del Pensiero nell’attività di mediazione e creazione: sostenendo che si tratta di una produzione sensibile e non del pensiero, Marx cade in contraddizione, poiché se è veramente produzione non può essere materialistica e se è sensibile non può essere realmente produzione.

Da questo passaggio fondamentale sorge il bisogno della “riforma della dialettica hegeliana” che vedrà la luce nella sua forma definitiva nel saggio omonimo del 1913.

La “prima riforma” (come sappiamo, dieci anni dopo ne avrà un’altra molto importante da fare) di Gentile prende il suo punto d’avvio da una rielaborazione e da uno sviluppo delle critiche alla dialettica hegeliana fatte dai suoi maestri: Bertrando Spaventa e Donato Jaja, quest’ultimo suo professore alla Scuola Normale Superiore di Pisa.

La riforma ruota essenzialmente intorno a due punti fondamentali:

  1. La separazione tra “fenomenologia” e “logica” operata da Hegel. Si tratta di quel processo per cui la Coscienza passa dalla Certezza sensibile all’Autocoscienza e alla Ragione, arrivando così al superamento del dualismo soggetto – oggetto.
  2. La tripartizione del sistema hegeliano in Logica, Filosofia della Natura e Filosofia dello Spirito.

Tripartizione che, pensando il logos come idea astratta in sé e la natura come idea astratta per sé, ritorna inevitabilmente al dualismo soggetto – oggetto, in una prospettiva di anteriorità rispetto al loro Aufhebung, il loro “superamento conservativo”: lo Spirito.

Scrive infatti Gentile:

“Hegel vide che non si concepisce dialetticamente il reale, se non si concepisce il reale stesso come pensiero: e distinse l’Intelletto (verstand) che concepisce le cose, dalla Ragione (vernunft) che concepisce lo Spirito. [] Ebbene, Hegel stesso [] tornato a rappresentarsi questa dialettica come legge archetipa del pensiero in atto, e quindi suo ideale presupposto, non poté non fissarla egli pure in concetti astratti e quindi immobili, che sono affatto privi di ogni dialettismo, e di cui perciò non è dato intendere come possano, per sé stessi, passare l’uno nell’altro e unificarsi nel reale continuo moto logico”.

Da questa critica parte, dunque, la riforma vera e propria della dialettica hegeliana.

Gentile obiettò che l’unica dialettica realmente possibile è quella del soggetto-pensiero, il quale pensando, pone i suoi contenuti e contemporaneamente li riassorbe in sé e li supera. Appare qui molto evidente, infatti, il richiamo al primo degli idealisti tedeschi post-kantiani: Johann Gottlieb Fichte.

La riscoperta dell’allievo di Immanuel Kant e autore dei “Discorsi alla Nazione tedesca” dà a Giovanni Gentile il là per la formulazione della riforma dialettica, giungendo ad una importante intuizione; l’unico reale divenire è quello dell’atto del pensiero, con il quale quest’ultimo pensa contemporaneamente l’essere e il non-essere. Senza tutto questo, appare evidente da dove nasce l’incompiuto superamento, da parte di Hegel, dell’antico dualismo metafisico di stampo platonico e di conseguenza la formazione di due distinte interpretazioni e scuole di pensiero, ovvero la destra hegeliana e la sinistra hegeliana; con, da un lato la destra che predica il ritorno totale alla trascendenza (diventando de facto una “scolastica” di Hegel) e dall’altro la sinistra indirizzata verso il materialismo (da cui poi verrà fuori il gruppo dei cosiddetti “giovani hegeliani” di cui fece parte lo stesso Marx).

Con la dialettica dell’Io proposta da Fichte e la dottrina dell’Io-penso di Kant come base, Gentile riforma la dialettica hegeliana partendo dal concetto che il soggetto è il pensiero e il pensiero è attività. Il filosofo di Königsberg e il suo allievo avevano mostrato chiaramente che la qualità principale del soggetto (ovvero l’attività del pensiero) è che esso non può esser trattato come un oggetto, come un pensato, ma deve esser trattato come pensante.

Gentile insiste dunque sulla necessità di una rigorosa formulazione della sintesi a priori, il che vuol dire che una sintesi, per essere realmente a priori, non può essere concepita come atto unificatore di due opposti preesistenti, come in Kant, con i dati sensibili e le forme a priori che precedono la sintesi, e in Hegel, dove essere e non-essere precedono la sintesi del divenire. Prima la sintesi e poi l’analisi, dunque, non il contrario; solo in questo modo può essere infatti superata la sintesi astratta tra relativismo soggettivo e dogmatismo oggettivo, così come l’altrettanto astratta sintesi di una conoscenza che sia ridotta a semplice fenomenismo soggettivo incapace di comprendere la realtà in sé delle cose. Così come quella di una conoscenza che, trovandosi dinanzi ad un oggetto indipendente ed esteriore ad essa, non può far altro che tentare un adeguamento ad esso.

Queste sono le basi da cui il giovane Gentile inizia nella sua ascesa a maggiore filosofo italiano del Novecento. Il filosofo che di lì a poco si metterà al lavoro per fondare una nuova “teoria generale dello Spirito”, dove il reale è soltanto il pensiero nella sua attualità.

E il filosofo che qualche anno dopo ancora, forte del suo sistema di pensiero, sosterrà fino in fondo il neonato movimento fascista, donando alla nostra Nazione una riforma scolastica all’avanguardia (che forse certi ministri dell’istruzione degli ultimi tempi dovrebbero rileggere e ristudiare), dirigendo i più prestigiosi istituti accademici italiani e fondando, insieme a Giovanni Treccani, l’Enciclopedia Italiana.Chi pensa di aver ucciso Gentile in quel giorno d’aprile del 1944, rifletta attentamente ogni volta che sfoglia la Treccani oppure ogni volta che mette piede in un istituto scolastico, per quanto le riforme democratiche li stiano sempre più facendo a pezzi: si renderà conto che neppure il piombo partigiano ha ucciso il filosofo fondatore dell’attualismo. Dunque, non sarà di certo una censura a posteriori a fermare quella spinta vitale e filosofica che, più di cent’anni fa, il pensatore di Castelvetrano donò all’Italia e al mondo.