di Michele

Le recenti difficoltà dell’esercito ucraino hanno fatto sì che tornasse di moda il vociare delle sedicenti Cassandre che, con toni più o meno sinistri e falsamente realisti, predicano un esito già scontato per la guerra, ovvero l’indubitabile vittoria russa. Un atteggiamento da rifiutare nettamente sia nei contenuti più contingenti che in quelli profondi. 

Partiamo dai primi, lo stesso Putin si è mostrato entusiasta affermando che “tutti gli obiettivi stabiliti si stanno realizzando” e che le truppe stanno “costantemente migliorando la loro posizione in ogni settore, dopo che “l’anno scorso tutti i contrattacchi nemici sono stati respinti”. Proprio quest’ultima frase, però, ci fa capire come il miglioramento sia relativo, in quanto la preoccupazione iniziale era quella di doversi difendere dall’iniziativa ucraina. Passando, invece, proprio al versante ucraino, a Kharkiv la situazione è ben lontana dall’essere compromessa. Mentre i pochi successi dei russi a ridosso della frontiera sono per ora limitati. Possiamo anche presupporre come il mettere in evidenza determinate difficoltà da parte ucraina rientri in una strategia comunicativa rivolta agli alleati, per rimettere al centro dell’attenzione il contesto ucraino passato in secondo piano rispetto a quello di Gaza. 

Tutti questi elementi dimostrano che la guerra è ancora aperta. Ma per gli iettatori vari la guerra non è mai stata aperta. O, se lo è, è colpa dell’Occidente. È evidente che questo genere di affermazioni tendano a favorire una certa retorica russa. A ben guardare, però, tradiscono la delusione che la guerra non si sia risolta con l’iniziale colpo di mano del Cremlino e che Kiev, contro ogni pronostico abbia tenuto botta. Una delusione che, per una strana contraddizione, testimonia come il protrarsi del conflitto sia dovuto al fatto che la Russia abbia fallito almeno nel suo obbiettivo più ambizioso, ovvero quello di rovesciare il regime ucraino. Quindi non solo la Russia è fallibile, ma è addirittura perdente dall’inizio del conflitto. Sull’intervento dell’Occidente – per quanto abbia poco senso usare questa categoria – la faccenda si fa ancora più ridicola, quasi che l’accusa sia quella di non essersi semplicemente scansato. 

Passiamo invece alle implicazioni più profonde. Tralasciando come ogni disfattismo equivalga ad un atto di vigliaccheria e come quest’ultima si accompagni spesso al risentimento verso chi combatte, la questione è importante non solo come postura etica. Se c’è un merito della guerra fra Russia e Ucraina è quella di aver fatto riscoprire ai popoli europei di essere ancora nella storia. Proclamare un esito già dato del conflitto significa tornare nella fissità dello schema, nel fallimento di ogni determinismo, ignorare quell’irruzione dell’elementare e del pericolo che è la guerra. In altri termini, disconoscere il significato della storia e proclamarne la fine. Ancora peggio se lo si fa in nome della pace, ovvero della propria sicurezza economica e personale. Un rimpicciolimento del proprio mondo dentro un orizzonte di “imbestiamento in gregge”, di arrendevolezza e smobilitazione, la rinuncia a ogni vivere eroico. Anche la pace è un termine problematico, perché – come ci ricorda Corradini – “Quando si vuole la guerra interna, si è pacifisti”.
Aggiungiamo un altro tassello. Uno dei dibattiti che torna ciclicamente nel nostro Paese è quello sulla leva obbligatoria. È strano osservare le piroette delle varie declinazioni della destra tra gli entusiasmi per la naja e i paternalismi verso le nuove generazioni. Al tempo stesso il servizio militare viene esaltato come sorta di educazione con l’elmetto, di raddrizzamento del carattere, e dall’altra si proclama la totale sfiducia verso chi poi dovrebbe effettivamente andare a combattere, con chi si chiede sarcasticamente: “Ma mandate in guerra questi?!”. Qui in atto c’è il solito doppio legame verso i giovani che dovrebbero salvare la situazione (ovviamente al posto dei più vecchi), ma vengono indicati come i peggiori servi del sistema (come se l’avessero voluto e forgiato loro e non chi è venuto prima). Da una parte colpevolizzati e sminuiti, dall’altra alibi per l’inettitudine dei “veterani della rivoluzione”. Oltretutto la leva obbligatoria viene privata di ogni dimensione effettivamente militare, lasciando ad essa solo il compito di “insegnare il rispetto”, ovvero di perpetrare quel conformismo e quella mancanza di coraggio che ne è l’aspetto più deteriore.