Di Sergio

Non siamo qui per parlare di “cultura” in quanto fine a sé stessa, o tantomeno di storia nel senso comune del termine. Cosa significa parlare di Enea nel 2021? Cosa significa essere “Figli di Enea”? Spero che qualcuno se lo stia chiedendo. Perché parlare di classici ora che tutto va a pezzi? Ancora con Enea e Virgilio? Non si è scritto già troppo? Non si è parlato già abbastanza? Detto romanamente: a che ce serve?  A tutti questi polemici (che magari sono solo nella mia testa) vorrei rispondere come uno di loro, come un potenziale polemico che non ha meriti né tantomeno qualifiche universitarie per fare una lezione.

Se c’è un errore che possiamo commettere, in buona o cattiva fede, è proprio pensare che Enea sia solo storia, o peggio antologia, ancora peggio: un personaggio di fantasia, un frutto della propaganda Augustea degli albori dell’Impero. Comunque la si metta, la palette de couleurs (sì, il signorino parla il francese come direbbe Boe dei Simpsons) il colore delle opinioni nostrane in merito sfumano dal disinteresse per la materia per arrivare alla propaganda di una certa cultura anti-romana, quella alla History channel no? Del tipo Cesare era un sanguinoso tiranno, mentre Spartaco ed Arminio combattenti per la libertà, passando per quella noia accademica (a mio parere la peggiore) che nel solco della secolarizzazione dell’Occidente cerca di spogliare di ogni mistica, ogni magia, ogni sentimento, le narrazioni della nostra tradizione orale e scritta in nome soltanto del progresso per il progresso. Insomma, la situazione non è a favore del nostro eroe.

Il mix micidiale di queste tre tendenze ha generato intorno ad Enea l’idea, sbagliatissima, che come la si metta si metta è soltanto passato ed in quanto tale inerte, materia plasmabile da chi vuole vedere intorno a sé, un po’ come Narciso nello specchio d’acqua, soltanto la replica uguale di sé stesso.

Abituati come siamo, anche noi per inciso, a vedere nel nostro specchio-smartphone soltanto ciò che ci piace, abbiamo perso di vista il confronto, la distanza, il totalmente altro descritto da Rudolf Otto nel 1917 come  l’estraneo… ciò che riempie di stupore, quello che è al di là della sfera usuale, del comprensibile, del familiare, e per questo “nascosto”, assolutamente fuori dall’ordinario, e colmante quindi lo spirito di sbigottito stupore. Non abbiamo più l’effetto wow in pratica: tutto ci annoia, nonostante l’overdose quotidiana di wow reaction sui social. Cosa volevo dire con questo? Che in sostanza Enea, come qualsiasi altra narrazione mitica, genera repulsione attiva oppure il tentativo, passivo e abitudinario, di assimilazione ai tanti, troppi, molti piccoli narcisi che abitano questo globo.

Ecco allora che Enea e la mitica europea diventano i nemici della cosiddetta cancel-culture, tanto quella del Black Lives Matter come quella più soft della Murgia o del Partito Democratico, ma anche quella di certa destra dio/patria/famiglia che si perde nella stupida reazione. Ecco che a seconda del capriccio, Enea è un profugo, Enea è un fuggitivo, Enea è un maschilista, Enea è un omosessuale, Enea è un introspettivo, sfigato, bullizzato ecc… chi più ne ha più ne metta. E così a cascata tutti i personaggi mitici degli albori dell’Occidente Europeo diventano familiari a noi, ma nel senso che la cultura generale vuole dargli, così Achille, Giovanna d’Arco ed Heimdall diventano negro-mulatti, Eschilo è bandito dalla Sorbona di Parigi e Omero dalle università americane, Perseo viene decapitato dalla medusa a New York grazie al MeToo, Cristoforo Colombo è nell’ occhio del mirino mentre schiere di statue bianche vengono rimosse e sostituite.

Così il totalmente altro diventa perpetrazione dell’uguale, analgesico stordente per questa società che non vuole provare dolore, abolisce l’altro come campo di confronto/scontro ma lo istituisce come termine di conformismo, questa società che ha ripudiato la guerra per costituzione (un po’ come il marito che si taglia le palle per far dispetto alla moglie) ed ha una fottutissima paura della morte.

Ma allora, Che fare? È il quesito di leniniana memoria ma pur sempre attuale in quanto atemporale, la domanda senza tempo.

A questa domanda si può rispondere con ciò che non va fatto, in primis indignarsi, fare i bacchettoni, ergersi a difesa di macerie mentre l’Occidente, fortunatamente, cade a pezzi. Non si può rispondere al fanatismo e alla noia con lo spirito di professorini, l’indignazione non basta a costruire un Noi stabile, perché la preoccupazione di un indignato non è tanto la società nel suo complesso, ma soltanto una preoccupazione per sé stesso, soltanto un’altra forma di narcisismo egocentrico.

Mi spiego: la prima parola dell’Iliade di Omero (mi direte cazzo centra ora con Enea? Centra! fa parte dello stesso grande racconto) è menin. Il poema fondativo (come lo chiamava Venner) della civiltà europea inizia con la parola ira… “Cantami, o Diva, l’ira funesta del Pelìde Achille…”. Qui l’ira non è soltanto rabbia, l’ira è qualcosa non di contabile ma di cantabile, poiché sorregge la forma narrativa dell’Iliade, la dispiega, le dà vita e ritmo. L’Iliade, come l’Odissea e l’Eneide sono canti d’ira: quest’ira è narrativa, epica, non perché la studiamo a scuola oggi ma perché è in grado di produrre determinate azioni, è il medium per eccellenza dell’azione eroica. L’indignazione, soprattutto nella sua forma digitale, non è cantabile: non è capace di azione, non è capace di narrazione, rappresenta più uno stato affettivo (o meglio dire gastrico) che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni. L’ira, il furore, nel senso epico è più di questo stato affettivo: è la capacità di interrompere uno stato in essere e di farne iniziare uno nuovo. L’Ira di Achille affretta la caduta di Troia e genera Roma. In questo modo l’ira produce futuro.

La massa indignata è superficiale e distratta, di questa massa noi non dovremmo mai far parte, perché anche se ci indigniamo per quello di cui si indigna la massa è pur sempre soltanto indignazione, che non canta, ma conta per uno. Si può dire che alla massa manca la massa, nel senso fisico del termine: manca la gravitazione, necessaria al moto di rivoluzione del nostro pianeta intorno al sole quanto alle nostre azioni. Senza la ricerca di quel centro di gravità permanente (cantato da Battiato) non si può generare futuro, ma solo un istante dilatabile all’infinito, un presente senza ieri e senza domani.

In secundis, sempre relativamente a cosa non fare, c’è abbandonare il campo. Non dobbiamo lasciare il campo della storia, del mito, del simbolo al nostro nemico e tantomeno ai professori annoiati. Infatti, è proprio il nostro nemico a dimostrarci che il passato non è qualcosa di inerte ma un campo aperto, senza regole, su cui si gioca il futuro. Non dobbiamo pensare, e qui sarò polemico, che il mito e la narrazione siano esseri inamovibili, non mutevoli, per forza di cose schierato a prescindere dalla nostra. “Non esiste alcuna verità storica. La verità storica è sempre da conquistare e da realizzare…” affermava nel suo Senso della storia, Giorgio Locchi. La tradizione stessa, che deriva dal latino tradĕre(trasmettere, consegnare), suggerisce un mutamento continuo di simboli e significati per la bocca di chi narra, di chi scrive, di chi ascolta.

Riscrivere i miti attraverso il cambiamento dei simboli, come sta avvenendo oggi, significa mutarne sostanzialmente il significato, e generazione dopo generazione, il mito sarà definitivamente altro rispetto a prima. Il mito, checché ne dicano i tecnici, resta la sostanza basale sul quale modelliamo il nostro stare al mondo, la nostra visione sulla vita e sulla morte. Cristianesimo docet. Altrimenti, perché questo fervore iconoclasta e revisionista sulla materia storica? Perché ci si affanna a voler portare Enea dalla parte dei migranti? Non è soltanto storia? A quanto pare, no.

Oggi una statua a New York, domani una rimozione di Colombo, dopodomani un David coperto per il pudore islamico. Ieri le interpretazioni pro immigrazione dell’Antigone, poi una serie Netflix con Giovanna D’Arco e Achille neri come il carbone. Poi le teorie gender insegnate all’asilo, assimiliate dai bambini attraverso i cartoni animati Disney. Una cattedrale brucia, un neurone muore. Dal canto nostro, la semicultura di docenti, studiosi e professori (coloro che dovrebbero almeno difendere un punto di orgoglio di mestiere) sta facendo appassire i nostri miti sotto un arido nozionismo buono solo per istruire consumatori.

Dire che Enea è scappato dalla guerra è prima di tutto brutto, un’infamità, un torto alla bellezza di un poema che si apre con la lotta di un uomo che rifiuta, fino all’ultimo, di abbandonare Troia in fiamme, che perde la moglie durante l’assalto acheo alla città e che accetta infine un dovere superiore, superiore anche (se vogliamo) alla sua vita e al suo onore. Un esempio di una visione del mondo che agisce senza guardare ai frutti dell’azione: Enea non vedrà mai compiuto in vita il destino che gli viene offerto in visione, accetta la sua parte, quella di testimone, di traghettatore tra la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Ecco perché è tanto odiato dalla società globalista: perché rappresenta una visione olistica, comunitaria, organica dello stare al mondo, perché è l’incarnazione incessante di un noi che non è momentaneo ma scorre tramite i presenti e si proietta aldilà della contingenza. Perché ci ricorda che tutti moriamo, ma che il mondo non inizia e non finisce con la nostra vita terrena. C’è sempre qualcosa da fare, c’è sempre un tartaro da affrontare, ma c’è sempre una possibilità di risalita.

Probabilmente, nel giro di una manciata di generazioni i miti così come si conoscono non saranno cancellati e nemmeno dimenticati. Chi ci fa guerra (direttamente o indirettamente) non si priverebbe mai di un’arma così potente. Provate ad andare in Israele, per esempio, e dire che Mosè era un immigrato in fuga dalla guerra… vediamo cosa succede? Eppure anche lui è un traghettatore, anche lui non vedrà mai compiuto il destino del suo popolo, anche lui ha dettato la sua legge che ancora oggi è rispettata… È facile che i miti saranno rimodellati per sostenere la narrazione globalista, progressista e fondamentalmente disumana. Il passato si scopre ogni giorno, Enea non esiste, non è mai esistito, fin quando un bambino non lo scopre, ma se dovesse scoprirlo così come vogliono loro?

Attenzione, non si tratta di borghese e muffa difesa dei valori e simboli dell’Occidente, si tratta di capire come il simbolo e il mito siano ancora una potenza attiva nel sentimento e nella psiche umana. Si tratta di avere chiaro qual è il nostro posto in quest’epoca in cui il rovesciamento dei valori si sta compiendo contro di noi, contro il nostro saper stare al mondo, contro la nostra visione dell’esistenza, che non è semplice ideologia ma bensì biologia.

“Dalla bocca esce la parola, il segno, il simbolo.

Se è segno, la parola non significa nulla.

Se invece è simbolo, significa tutto.”

È Carl Gustav Jung che nel suo Libro Rosso ci cala nell’importanza della parola e del simbolo, le quali non sono altro che tre realtà distinte di cui facciamo quotidianamente esperienza (anche se raramente ce ne accorgiamo): cambiare le parole, quindi, cambiare i simboli, significa di fatto agire inconsciamente sul modo di pensare. Cambiare il logos significa cambiare la realtà e il mondo. Questo è un dato basale, fattivo, non astrazione ideale.

A che ce serve, quindi?

Era la domanda dell’imaginario polemico con cui ho iniziato. La risposta: a tutto. Perché raccontare tutto questo? Perché come abbiamo detto sopra, la parola è tutto. Le voci fuori dal coro sono sempre più rare. Sono essenziali, vitali, piene di sana “ira funesta”.

Fu Gabriele D’Annunzio, nel suo Vergini delle rocce del 1895, a dire che un “ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica”. Sta a noi ritrovare il senso delle parole, dei simboli, della potenza del mito per fronteggiare la distruzione e il nulla. Ridare forma non vuol dire difendere le rovine, ma essere attivi, vivi, per costruire e trasmettere a chi verrà dopo. Se non saremo noi a trasmettere, saranno loro e in men che non si dica, la tradizione sarà contro di noi.

Allora chi era veramente Enea? È una possibilità, è chi scegliamo di essere ogni giorno, è l’inizio che noi vogliamo darci. Era, è, sarà, un uomo coraggioso, come Noi.