Di Edo

Sono cresciuto con le immagini del G8 di Genova. Provai, fin dal primo momento, una istintiva repulsione, etica ed estetica al tempo stesso, verso i contestatori, i sedicenti no global che agitavano, in maniera scomposta, velleitari proponimenti egualitari, terzomondisti, antitetici a qualsiasi idea di potenza, virtù, bellezza non meno dell’aspetto di chi li sosteneva, accozzaglia di straccioni malvestiti e trasandati. Non nego di non aver provato grande dispiacere, all’epoca, nel visionare i filmati in cui le guardie malmenavano le zecche, o le rincorrevano con le camionette.

Poi, col tempo, ho iniziato a conoscere quelli protetti dalle guardie, quelli dall’altra parte. Uomini in giacca e cravatta, certo eleganti, ma con sulla coscienza milioni di morti, a seguito di guerre, embarghi commerciali, terrorismo su commissione, episodi di una lunga scia criminale e criminogena destinata a durare fino ai giorni nostri e alimentata, in nome di un’umanità di cui essi si pretendono gli unici rappresentanti, con la forza della menzogna e del denaro. 

Servi e al tempo stesso artefici di un sistema votato alla distruzione di quel Dio, Patria e Famiglia che si fanno vanto di difendere.

Ho capito che contestatori e contestati erano (e sono), in fondo, due facce della stessa medaglia. Lo dimostra il fatto che, da allora, molti sono transitati dai primi ai secondi, e che i primi altro non rappresentano che gli utili idioti dei secondi, pronti a convergere sui temi decisivi dei nostri tempi: cancellazione dei confini, negazione degli Stati, annientamento delle identità e delle differenze. Pronti altresì a fare fronte comune contro i pochi, eroici, veri nemici di questo sistema, agitando gli spauracchi che rispondono al nome – qualunque cosa ciò voglia per loro significare – di nazismo, fascismo, antisemitismo, ecc., etichette funzionali a mantenere in vita uno stato d’eccezione permanente per il quale il preteso Paradiso in terra della società del pluralismo, della tolleranza e della democrazia viene sospeso nei confronti dei dissenzienti, gli intolleranti, gli odiatori sempre, ovviamente, arbitrariamente individuati dai padroni del discorso. Nessuno dei principi sanciti nei roboanti cataloghi dei diritti ha valore nei loro confronti, neanche quello di onorare i propri morti.

Il “ritiro della tolleranza verso i movimenti regressivi” o “tolleranza discriminatoria[1], per citare Marcuse, tendenza speculare a quella, sul piano dei rapporti internazionali, espressa dal concetto di “guerra discriminatoria” (Schmitt), la guerra – cui si accennava sopra – condotta in nome dell’umanità, che conduce alla “terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità[2].

Bracci di un’unica tenaglia protesa a conformare il pluriverso umano ad un unico paradigma omologante.

Da qui l’impegno di combattere entrambi, con una promessa: non prevarranno!


[1] H. MARCUSE, La tolleranza repressiva, in Robert Paul Wolff, Barrington Moore Jr., Herbert Marcuse, Critica della tolleranza (1965), Einaudi, 1968.

[2] C. SCHMITT, Il concetto di ‘politico’ (1932) in ID., Le categorie del ‘politico’ a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Il Mulino, 1972.